Betty e il senso della vita

Era nata e cresciuta in una famiglia di periferia. Dura da bambina, dolce da adulta. Anche se era carina con lei, la madre non le piaceva, adorava il padre. Una volta gli chiese, doveva avere dodici anni, di insegnarle cos’era il sesso. Lui, come risposta, le aveva dato uno schiaffo. Non se l’era presa, aveva capito di aver fatto uno sbaglio. Aveva chiesto qualcosa alla persona sbagliata.

Fece la stessa richiesta, qualche tempo dopo, ad un amico e coetaneo del genitore. Questi non se lo fece ripetere due volte. Dopo averle fatto inghiottire il suo sesso, la sverginò. Betty, felice e contenta per aver soddisfatto la sua prima curiosità sessuale, era ritornata a casa in uno stato di euforia.

Era figlia unica. Coccolata a casa, aggredita a scuola. Ad un certo punto capì che doveva scegliere: difendersi o soccombere. Aveva deciso di difendersi, diventando così una “dura”. Le era capitato di picchiare anche i maschi, a scuola.

Da grande voleva diventare dottore; riuscì solo a diventare infermiera. Aveva trovato lavoro in un grande ospedale della metropoli. Le piaceva il suo mestiere. Era stato lì, all’ospedale, che la sua durezza si era trasformata in dolcezza: amava i suoi pazienti, particolarmente gli anziani.

Non aveva mai voluto rapporti stabili. Non le si addicevano. Era di natura poligama. Quando aveva lasciato la famiglia per il suo monolocale in città, aveva scoperto il tipo di vita che faceva per lei. Voleva essere indipendente, inseguire i suoi desideri, i suoi capricci. La vita era piena di avventure, di sorprese, di cose meravigliose, non voleva perdersele.

Legarsi ad un’altra persona voleva dire vivere metà della vita, posto che il compagno fosse democratico. Era quel dover decidere “cosa fare” e cosa “non fare” in “due”, come i suoi genitori, che non tollerava. Tutto era così facile quando si era “soli”; tutto diventava problematico in “due”. Le bastavano gli impegni di lavoro, altri non ne voleva.

Adorava viaggiare. La vita è un viaggio e lei, il suo, voleva viverlo tutto. Per due decenni, dai quindici ai trentacinque, tutti gli anni aveva visitato almeno un nuovo paese. Le piaceva la gente che parlava lingue diverse. Quel contatto ravvicinato con persone che emettevano rumori che lei non capiva, le dava l’impressione di trovarsi di fronte a degli extraterrestri, la eccitava. I loro modi di vivere le parevano così buffi da farla scoppiare dalle risate. Il cambio della guardia in Atene l’aveva impressionata così tanto da farla letteralmente accasciare per terra dalle risa.

Betty aveva fatto all’amore con molti uomini, a volte con uomini di cui non capiva la lingua: un greco, un arabo, dei mongoli, un cosacco. Le era capitato di farlo anche con uno sciamano. Mentre lo facevano, lo sciamano si era messo a dire cose. Le diceva, almeno così era parso a lei, in un modo strano, ridicolo. Non ce l’aveva fatta a resistere a quella cantilena, era scoppiata a ridere, a ridere, a ridere prima di finire l’amplesso. L’uomo aveva smesso di emettere rumori, smesso di penetrarla, l’aveva guardata a lungo e, poi, come se avesse visto in quella donna qualche sorta di spirito malefico, si era separato in fretta da lei, era corso nudo fuori dalla tenda e aveva iniziato a gridare e a picchiarsi la testa coi palmi delle mani come un forsennato. Betty si era vestita in fretta e furia ed era filata via tenendosi i fianchi dalle risa.

Tutto era divertente e buffo. Una specie di circo, giostra. Certo, sapeva anche che c’erano altri aspetti della vita – e chi meglio di lei che lavorava in un ospedale? -, ma sapeva che voleva vivere la sua giovinezza con la gioia e con il sorriso. Non era sempre facile, lei ci provava comunque, e il più delle volte ci riusciva.

Poi, anche per Betty, era arrivata la mezza età, la crisi della mezza età, quindi la svolta. Era cambiata. Aveva smesso di viaggiare, si sentiva sazia di avventure, di curiosità, di piaceri. Avvertiva una nuova esigenza in lei, ma non capiva cos’era. Mai avuta prima. Era vissuta fino a quarant’anni senza neppure chiedersi perché viveva e qual era il senso della vita. Queste cose le realizzava vivendo. Negli ultimi due anni, però, dai trentotto ai quaranta, questo pensiero si era fatto in lei sempre più tirannico e dominante. Spesso, mentre si guardava allo specchio, dialogava tra sé e sé.

“Inutile che mi fai questa domanda. Non so risponderti”.

“Devi” gli diceva un quid dentro di lei.

“Perché devo?”, ribatteva un altro quid.

“Perché sei nata bestia, ma non puoi andartene da bestia”, rispondeva il primo quid.

Era vero. Tra tutto quello che aveva imparato alla scuola di medicina c’era anche questo: che lei era una bestia. Questa sua identità animale l’aveva vissuta felicemente fino a qualche anno prima. Ora, però, la bestia non si accontentava più di essere bestia, voleva essere una bestia che dava un senso alla sua vita. A Betty venivano i capogiri.

Cambiò stile di vita. Nel suo tempo libero, iniziò a leggere, ad andare a conferenze, a frequentare corsi serali. Le piaceva ascoltare gente che parlava di che cos’è la vita. Notò che guru, filosofi, demagoghi, scienziati, artisti, tutti, nessuno escluso, avevano una loro interpretazione dell’esistenza. Interessante. Degni di attenzione. Ma erano state le parole d’un tizio che parlava e sparlava della vita in una piazza in una calda sera d’estate, a colpirla:

“In una società uno trova regole di comportamento, trova un lavoro, una sistemazione, ma non trova il senso della vita. Questo è individuale, ognuno deve trovare il suo”.

Queste parole andarono a segno. Le bastarono per capire quello che doveva capire. Si era allontanata dalla piazza e da quel crocchio di persone intorno a quel tipo che continuava a parlare, tutta avvolta nei suoi pensieri.

“Devo dare un senso alla mia vita!” si andava ripetendo in quei giorni. “Questo la società non può darmelo. Può darmi un lavoro, e me l’ha dato; può darmi una protezione, e me l’ha data; può darmi una certa libertà di azione, e me l’ha data; ma non può darmi il “senso”, questo devo darmelo io”. Un chiodo fisso, un’ossessione, ma non trovava il modo di risolvere il problema. E poi dove trovarlo? E poi che cos’è questo dannato senso? È qualcosa che si mangia?

Iniziò a scrutare il suo cuore, le sue inclinazioni profonde, i suoi istinti di donna. Si mise in contatto non con la parte godereccia di se stessa, quella che l’aveva spinta a viaggiare, a vivere i desideri più belli del momento, ma con quella che le chiedeva di dare un “senso” alla vita.

Questa riflessione la portò a scoprirsi diversa. Quante Betty c’erano in lei? Quale, di tutte le Betty che c’erano in lei, stava vivendo? Era confusa. Sempre più confusa. “Sono proprio un bordello” finì per dirsi con un sorriso. E lo era. Ma anche i bordelli hanno una loro ragion d’essere. Lei doveva trovare la sua. Non era comunque nel volto dell’altro che lei cercava il senso della vita. Quest’idea raramente la sfiorava e quando lo faceva, era sempre per delle necessità biologiche.

Una volta, attraversando un parco, vide un uccello che non riusciva a volare. Si avvicinò. L’uccello cercò di correre, volar via, ma non ci riuscì. Lo prese in mano. Aveva un’ala rotta. Lo portò a casa. Lo medicò, gli aggiustò l’ala. Il giorno dopo comprò una gabbia. Lo mise dentro. Iniziò a prendersi cura di lui. Mentre lo faceva, qualcosa la scosse. Sentiva che c’era qualcosa di bizzarro in quel suo nuovo modo di fare: c’era un quid di diverso tra il prendersi cura di quell’uccello e il prendersi cura dei suoi ammalati. Niente, la sera, dopo il lavoro, non vedeva l’ora di ritornare a casa, di vedere come stava il suo uccellino. Era una cosa nuova nella sua vita.

 

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