Compro, dunque sono

Prendi, Rossi, i fuori strada, tanto per darti un esempio. Consumano barili di benzina al chilometro, inquinano, occupano molto spazio ovunque li metti, ingombrano i parcheggi, costano un fracco di soldi. Ecco una tecnica automobilistica dello spreco, dello sfacelo ambientale, dell’irresponsabilità, dello show off. In breve, una tecnica criminale. Di più. La stragrande quantità della roba che trovi nei negozi, amico, è superflua. Ci sono fabbriche che costruiscono oggetti non necessari, futili, pura panacea. Si fabbrica, si mette sul mercato, si vende.

Il consumismo, dunque, metaforicamente parlando, è un’avida bestia perpetuamente alla ricerca di nuovi stimoli: il suo linguaggio è: comprare, comprare, comprare! Ormai non c’è più via d’uscita, siamo lanciati su una navicella pazza e di non ritorno. La missione di questo razzo è quella di scattare continuamente nuove fotografie e la nostra è quella di comprarle e di renderci sempre più schiavi di esse.

Qual è, allora, il suo obiettivo finale? Quello di realizzare cose senza mai realizzarci. Noi siamo nulla; gli aggeggi che fabbrichiamo sono tutto. Ecco la quintessenza della cultura che ci siamo creati e in cui viviamo; ecco cosa la scimmia homo si è inventato per sfuggire alla sua vacuità, alla sua pochezza e povertà interiore. Siamo tutti presi da un consumismo isterico, frenetico, diabolico, stressante e, infine, micidiale. La nostra febbre consumistica spiega la nostra nullità, futilità, costante insoddisfazione.

Compro, dunque sono. Consumo, dunque sono. Indosso il nuovo abito, dunque sono. Ho l’ultimo modello vattelapesca, dunque sono. Sempre nuove macchine, sempre nuovi vestiti, sempre nuove cose, quindi vivo. Siamo succubi d’una tecnologia impazzita, che non capiamo più, ma che subiamo. Ci illudiamo di servircene e di usare i prodotti che sforna, ma in realtà non è così. Siamo diventati i suoi schiavi, i suoi burattini, la sua diabolica forza.

L’altro giorno, in un momento di follia, un mio vicino ha demolito mezza casa. L’ha fatto perché si era comprato l’ennesimo computer e aveva riscontrato problemi con il software. Ad un certo punto, il suo cervello non ha retto più, è scoppiato. Ha iniziato a gridare come un matto e a spaccare con un bastone da montagna tutto quello che gli si presentava davanti. Il primo a rimetterci, of course, è stato il computer nuovo di zecca, l’ultimo modello lanciato sul mercato.

Voilà dove la tecnica e l’escalation del consumismo e del capitalismo imperanti portano il bipede: alla demenza. Una persona che non trova più il tempo di guardarsi dentro e intorno è una persona programmata, artificiale, morta. Il consumismo crea artificio, desideri inutili, deliri. Allontana da ciò che si “è”, spingendo verso ciò che “non si è”. Fondamentalmente l’uomo è una bestia dai desideri semplici e genuini, non un drogato eternamente alla ricerca di nuove droghe e di nuovi stimoli. La nostra è una cultura stolta, criminale, folle.

Insomma, invece d’investire l’intelligenza nella ricerca medica, in case di cura per giovani, adulti e anziani, nell’educazione, in un’etica individuale e sociale sana, nella scienza, nella buona alimentazione, in una tecnologia della salute, in una filosofia di vita più consona alla nostra natura, la si investe in cose che alienano e avvelenano la nostra esistenza. La nostra cultura? Una cultura dell’egoismo e dell’assurdo.

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