Fame (racconto) *

 

Permettetemi queste due parole:

Questo è un racconto che ogni italiano dovrebbe leggere.

Perché?

Perché fa parte delle sua realtà e qualunque essa sia.

 

Un improvviso lampo disegnò una lunga tridente luminosa in un cielo a sfondo scuro. Seguì un tuono e subito dopo iniziò a piovere e a tirare vento. Le ciminiere della fabbrica chimica di Monsanto, indisturbate dai fenomeni temporaleschi, continuavano a inquinare lo spazio circostante con il loro fumo denso e nero. Ogni tanto da quelle bocche alte e rotonde si sprigionavano lunghe lingue di fuoco. Il personale della Monsanto lavorava nei laboratori, negli uffici, nei magazzini. Fuori non si vedeva nessuno, soltanto dalla porta della caffetteria ogni tanto usciva o entrava qualche figura correndo. La pianta era dominata da grandi e piccole cisterne, da tubature che serpeggiavano ovunque, da alti recinti di ferro che chiudevano impianti idraulici, da piccole centrali elettriche, qua e là aiuole spelacchiate, poi strade vicoli passaggi coperti con tetti di poliestere colorati, un parcheggio pieno di automobili tutte allineate. Da un cumulo di terra fresca ammucchiata accanto alle fondamenta d’un lavoro in corso, rivoli d’acqua sporca si scioglievano e iniziavano a scendere zigzagando verso la terra piana.

Sotto l’arco d’una porta, un uomo infagottato in una tuta di plastica gialla, con la pala in mano, si proteggeva dalla pioggia. I suoi occhi guardavano il fumo che le ciminiere emettevano e, appena si dissipava nell’etere, il suo pensiero si dileguava e si allontanava da quel luogo fluttuando rifluendo viaggiando su mari terre e paesi.

Era il 1958, era in Italia, in Puglia. Qui, fra tante altre, una famiglia soffriva la fame. Molta fame. Il capo famiglia cercava lavoro ma lavoro non trovava. Aveva bussato a tutte quelle porte che avrebbero potuto dargli qualcosa da fare, un impiego, un impiego qualunque. Non lo trovava. Era pronto a fare qualsiasi cosa pur di lavorare, pur di portare un pezzo di pane ai familiari, ma non c’era modo. I suoi bimbi, da quando erano nati, avevano solo imparato a piangere per la fame.

Bussa, bussa, qualcuno prima o poi ti aprirà la porta.

Anche al nord aveva bussato. Era andato in inverno, all’inizio d’un nuovo anno. Aveva trovato da dormire insieme a altri compaesani in un casotto coperto di neve, con l’acqua che gocciolava dentro. Durante il giorno cercava lavoro nelle fabbriche, nei cantieri edili, nelle officine, ovunque vedeva gente piegare le spalle, ma lavoro per lui non ne avevano, non in quel momento. Viveva con una pagnotta al giorno, era diventato un’acciuga, tanto era magro.

Era sempre intirizzito dal freddo e continuava a dormire in quel casotto coperto di neve e con l’acqua che gocciolava dentro. Poi un giorno le gambe non lo sostennero più. Si ammalò di broncopolmonite. Nessuno poteva prendersi cura di lui. Lì, in quel casotto ghiacciato, a tossire e a vedersi morire.

Col tempo era diventato un peso anche per gli altri. Non c’era modo di riprendersi. Aveva finito quei quattro soldi che aveva portato con sé, prestiti e risparmi fatti con grandi sacrifici giù al paese, non aveva più niente. I compaesani, a un certo punto, presi dalla pietà, fecero una colletta, gli comprarono un biglietto e lo spedirono a casa. Entrò nella sua abitazione, non solo più misero di quando era partito, ma addirittura sul punto di morire.

Bussa, bussa, qualcuno prima o poi ti aprirà la porta.

Un giorno, dopo essersi ripreso un po’, si era messo a spazzare le strade sporche della cittadina in cui abitava, nella speranza che il Comune l’avrebbe assunto come spazzino, dato che non aveva uno. Il maresciallo glielo aveva detto più volte che lavoro per lui non c’era. L’aveva fatto prima con le buone, poi a denti stretti e, infine l’aveva minacciato dicendogli che se avesse continuato a toccare la “roba pubblica” senza essere autorizzato, sarebbe stato costretto a metterlo in prigione.

Bussa, bussa, qualcuno prima o poi ti aprirà la porta.

A casa lo spirito di sopravvivenza spingeva la famiglia dell’uomo dalla tuta di plastica gialla a nutrirsi di quello che trovava: di erbe raccolte nei campi, di fave, di ceci, di qualche pesce che i pescatori gli davano o lasciavano sulla spiaggia, di tozzi di pane nero. Era questo il loro cibo. Nessun aiuto dai parenti, tutti morti di fame quanto loro. La malnutrizione e l’indebolimento fisico e morale regnavano in quella famiglia. Era la miseria, la fame, la lotta per restare in vita. Eppure l’uomo dalla tuta di plastica gialla voleva lavorare, eppure aveva bussato in cielo in terra e in ogni luogo, ma né il cielo né la terra né un luogo avevano orecchie per lui.

Bussa, bussa, qualcuno prima o poi ti aprirà la porta.

Una volta don Giacomo, che sapeva in che condizioni viveva la famiglia dell’uomo dalla tuta di plastica gialla, gli mise una pulce nell’orecchio: “Perché non emigri in Australia con la tua famiglia? Si dice che là c’è tanto lavoro e che i bambini possono mangiare pane e carne di montone a piacimento.”

“Come posso emigrare con quattro figli e moglie senza neanche un soldo?”

“Vendi la catapecchia, qualcosa ti daranno.”

“Prima di salire sulla nave, disse il giorno dell’imbarco l’uomo dalla tuta di plastica gialla alla famiglia, ci puliremo le scarpe fino all’ultimo granello di terra rimasto appiccicato sotto le suole di questo maledetto paese che, se non fossimo emigrati, ci avrebbe mandati tutti al cimitero.”

Qualche ora dopo, sul ponte, l’uomo dalla tuta di plastica gialla, con a fianco la moglie tutta imbacuccata e i suoi figlioli – la più grande aveva dodici anni –  guardava dalla nave il porto che si faceva sempre più sfumato e lontano. Ad un certo punto la sua faccia s’irrigidì e sentì un nodo serrargli fortemente la gola. Gli era venuta voglia di piangere, di gridare, di fare pazzie. Si contenne, dominato da un senso di responsabilità verso la sua famiglia. Allora la sua fronte si corrugò, si raschiò la gola e sputò in direzione di quella terra che tutto era stata per lui, eccetto che umana.

Una casa, anche se di legno, era meglio di quella che si erano lasciati dietro. Poi, proprio come aveva detto don Giacomo, qui, in questo nuovo paese, c’era lavoro, c’era pane e carne di montone. Per la prima volta nella vita, la famiglia dell’uomo dalla tuta di plastica gialla si saziò di cibo. Parevano aver dimenticato tutti quel girone infernale da cui provenivano e si erano gettati in quella nuova esistenza con forza, speranza e avidità.

Qualche anno dopo il loro arrivo, anche nel paese del pane e della carne di montone le cose cambiarono. Anche qui arrivarono disoccupazione e miseria. Gli immigrati erano i più colpiti. Venivano da tutte le parti della terra e l’uomo dalla tuta di plastica gialla era tra di loro. Annunziata, la loro piccina, aveva cinque anni quando il suo corpicino debole e malaticcio cedette. Fu un colpo duro per la famiglia, ma cos’altro si poteva fare se non soffrire e tacere? Tutto era inspiegabile per loro e Dio prometteva qualcosa solo dopo la morte.

“La fame ci insegue,” disse la moglie dell’uomo dalla tuta di plastica gialla. “Non siamo morti di fame nel nostro paese, ma moriremo in questo dove nessuno ci conosce o ci capisce.”

“Questo mai!” esclamò lui prendendo e stringendo fortemente le mani della moglie.

Era il mese di agosto, era inverno, erano le sei del mattino. Tirava un vento gelido, il cielo era grigio, triste, plumbeo, di tanto in tanto qualche goccia d’acqua cadeva sulla sua faccia irrigidita dal freddo. Era il tredicesimo, brutto numero. nella fila che aspettava davanti al mattatoio di South Melbourne per una possibile giornata di lavoro. La coda era lunghissima com’era lunghissima la fame. L’uomo dalla tuta di plastica gialla quella mattina si era alzato presto e dopo aver camminato per più di un’ora era riuscito ad avere una buona posizione in quella fila che non finiva più. Questo voleva dire possibilità di lavoro. Aveva tentato altre volte, invano. Questa volta però, la speranza, anche se il 13 era un brutto numero, l’aveva.

Il lavoro al mattatoio era a cottimo: più uno smembrava e puliva pecore appena uccise, più uno guadagnava, fino a quaranta dollari al giorno, e quaranta dollari in quei tempi erano un mucchio di soldi, soprattutto per la gente bisognosa. Inoltre, la sera, a lavoro finito, davano due chili di carne a quelli che avevano lavorato lì durante il giorno. Pecora giovane o vecchia, tenera o dura, poco importava, tutto era buon brodo per gente che soffriva la fame e non trovava lavoro.

Un australiano alto, rigoglioso e robusto, a un certo momento, venne fuori dall’ufficio impiego e urlò: “We need twelve men today, the first twelve!,” 1) e iniziò a tirarli fuori dalla fila uno dopo l’altro. L’uomo dalla tuta di plastica gialla chiese a un altro: “Cosa ha detto?” “What?,”2) belò questi facendo un’altra domanda. Era un greco, anche lui un povero disgraziato. Un polacco alcuni passi dietro di lui gli mormorò: “Ha detto che prendono soltanto i  primi  dodici.”

“Oh satana!,” mormorò l’uomo dalla tuta di plastica gialla, sono stato tagliato fuori solo d’un numero. Maledizione!” Sapeva benissimo che era il tredicesimo. Li aveva contati e anche più volte quelli che stavano davanti a lui. Che fare? Si poteva fare qualcosa? Dicono che nell’estremo bisogno il cervello si aguzzi, e che lo faccia! Nel momento in cui l’australiano alto e robusto aveva voltato le spalle per andarsene, dopo aver preso i “fortunati dodici”, l’uomo dalla tuta di plastica gialla, approfittando di un momento di confusione, una volta che la lunga fila si era sciolta, s’infilò nel gruppo dei fortunati senza farsi notare

Un odore grave, sgradevole, di pecore ammazzate aggrediva l’ambiente. Un lungo banco pulitissimo, con molti posti di lavoro. Sopra di esso c’erano a stretta distanza gruppetti di utensili: coltelli, spaccaossa, mannaie, forbici, ganci, grembiuli da lavoro. Non importava se quegli uomini fossero del mestiere oppure no, quello che importava era che pulissero e facessero a pezzi il maggior numero di pecore possibile secondo l’esempio che un esperto avrebbe dato loro prima di cominciare.

L’uomo che si era intrufolato abusivamente tra i fortunati dodici, iniziava a sentirsi nervoso, confuso, esitante, non a suo agio con la coscienza. Questa, infatti, cominciò subito a trascinarlo nel suo impietoso tribunale. Ma aveva fame, anzi non ci vedeva più dalla fame tanta ne aveva, e dello stesso sconforto soffrivano moglie e figli.

Dopo che l’esempio fu dato, le pecore uccise cominciarono ad arrivare sul banco. Nessuno si era accorto che gli uomini erano tredici, tanto era la loro attenzione tesa verso il proprio compito. Presto, però, qualcuno avrebbe dovuto lasciare quel tavolo da lavoro, i soldi che avrebbe potuto guadagnare, i due chili di carne e tornarsene a casa a mani vuote. L’uomo dalla tuta di plastica gialla continuava a sentire la sua coscienza ribellarsi, stava per andarsene, dopo tutto era lui l’intruso, era lui quello che avrebbe portato via il pane ad altri bambini e forse più bisognosi e affamati dei suoi.

Mentre era lì tentennante se restare o andarsene, gli apparirono i visini pallidi dei figli: in essi vide la loro fame, la loro agonia e il rimprovero che in silenzio gli rivolgevano: “Perché ci hai messo al mondo se era per farci morire di fame come Annunziata?” Lui, il loro castigo; lui, il loro boia; lui, la loro speranza. Poi gli apparve il viso patito e triste della moglie e subito dopo le sue parole gli risuonarono di nuovo nelle orecchie: “Non siamo morti di fame nel nostro paese, ma moriremo in questo dove nessuno ci conosce o ci capisce.”

“Questo mai!,” aveva esclamato dentro di sé l’uomo dalla tuta di plastica gialla e di colpo il suo cuore s’indurì.

L’uomo che stava alla sua sinistra era giovane, quello alla sua destra un po’ malandato, di mezza età e mancino. Quando, dopo l’esempio, fu detto d’iniziare, ognuno di loro afferrò la carcassa che gli stava lì di fronte, la sbatté sul banco e cominciò a sventrarla. In quel momento iniziale c’era nervosismo inesperienza confusione nei gesti di quegli uomini attanagliati dalla fame e non competenti di quel mestiere. L’uomo dalla tuta di plastica gialla iniziò prima col coltello e poi con la mannaia ad aprire in due pezzi la sua bestia, così anche l’uomo che stava alla sua destra, il mancino. Poi, a un tratto, e non si sa com’era realmente successo, mentre erano presi dal lavoro, si videro tre dita d’una mano staccarsi e ruzzolare sul tavolo. Giacevano lì sul banco insieme al piede della pecora. Erano del mancino. La sua prima reazione fu di ghiaccio, di sbigottimento. Restò là, stupito, guardando quelle tre dita e, chissà, forse non era ben sicuro se fossero sue o quelle del suo vicino. Poi, quando il sangue cominciò a sgorgare a fiotti dalle dita mozze, a quello spettacolo barcollò, e un momento dopo finì per terra, svenuto.

Grida, fasciature, ambulanza, ospedale: cose che succedevano in quel posto. Sì, ma com’era successo? Il poveretto, non essendo del mestiere e per di più mancino, si era sbagliato, aveva confuso le sue dita con il piede della pecora. Fortunatamente là dentro ce n’era uno in più. Colui che li aveva tirati fuori dalla fila aveva fatto un errore nel contarli. Così, il lavoro della giornata, e questo era la cosa più importante per il mattatoio, fu portato ugualmente a termine come previsto.

Moglie e figli quella sera si deliziarono con tutta la carne che l’uomo dalla tuta di plastica gialla aveva portato a casa dal macello di South Melbourne. Era da molto che non vedevano di quella roba in casa. I bambini, a ogni pezzo di carne che mettevano in bocca, sembrava crescessero a vista d’occhio e che i loro visini prendessero un colore roseo. Era bello vederli mangiare con tanto appetito.

Tutti a tavola erano contenti, eccetto lui, eccetto l’uomo dalla tuta di plastica gialla. La moglie lo guardò più volte. Era pallido, sconvolto, brutto. Non l’aveva mai visto in quello stato prima. La loro vita era segnata da giorni duri e difficili e aveva avuto l’occasione di vederlo in tanti miseri e dolorosi aspetti, però mai come quella sera.

“Perché non mangi?”

“Non ho fame.”

E non appena pronunciò queste parole, l’uomo dalla tuta di plastica gialla sentì che il suo stomaco non reggeva più. Si alzò dalla tavola e corse in bagno. Si era messo a vomitare, a vomitare nonostante non avesse mangiato niente per tutto quel giorno. Vomitò e vomitò tanto che alla fine aveva paura che gli venissero fuori dalla bocca anche le budella.

Continuò a farlo per giorni, mesi e addirittura anni, ma nessuno della famiglia seppe mai perché.

Era quel pensiero libero, etereo, ribelle di ogni divieto, che non dimenticava mai nulla, che fluttuava nell’aria, che si librava qui e lì, a volte scendeva in picchiata su certi luoghi e vi rimaneva, a qualche metro dalla terra, là così sospeso, così assorbito dal ricordo; altre volte girava intorno a certe immagini fino alla nausea; altre volte ancora si accontentava semplicemente di volarci sopra e dare, en passant, un’occhiata in quel particolare punto, rinnovando così la memoria di un’esperienza ormai seppellita, ma pur sempre presente.

L’uomo dalla tuta di plastica gialla continuava a guardare il fumo che le ciminiere della Monsanto facevano svaporare in quel cielo piovoso, plumbeo, triste. Ora però la sua mente incominciava a confondersi, a non vedere più chiaro nelle cose, e nello stesso tempo gli veniva voglia di rimettere. Il male che la sua tirannica coscienza gli procurava si era di nuovo impossessato di lui. Quelle maledette dita non riusciva a togliersele più dalla mente, sempre lì a ballare davanti ai suoi occhi. Un brivido lo percorse. “Perdio,” gridò, “non ho sofferto già abbastanza!” Una delle sue mani raccolse nervosamente dell’acqua piovana e se la buttò sul viso. L’acqua fresca lo scosse, si sentì meglio.

“Angelo!,” chiamò in quel momento il suo capo, “it’s a shit of a day, today. We won’t be able to do anything. Let’s go home.” 3)

L’uomo dalla tuta di plastica gialla si rallegrò all’idea che il lavoro fosse finito per quel giorno. Un momento dopo era in macchina e mezz’ora dopo a casa.

La moglie non c’era. Sul tavolino d’entrata notò una cartolina di sua figlia che in quel periodo si trovava a Parigi col fidanzato. Il figlio più giovane era nello studio. Angelo andò in cucina, prese una bottiglia di sherry da un mobiletto, si versò una buona dose nel bicchiere e poi andò a sedersi in salotto, di fronte alla televisione a colori.

 

 

1) Abbiamo bisogno di dodici uomini oggi, i primi dodici.

2) Cosa?

3) Angelo, è un giorno di merda oggi. Non riusciremo a fare niente. Andiamo a casa.

*    Preso da: “Ribelli non si nasce ovvero il manifesto dell’antiarte”

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