Fiori di sierra, romanzo, il ritorno, parte terza (1)

I

Faceva freddo. Il vento fischiava tra il fogliame della quercia, la pioggia si rovesciava con violenza sul tetto della casa sotto il picco sporgente del monte Agave e gli uccellini cercavano riparo anche sulla soglia della porta e sul davanzale della finestra. Sulle montagne di Fiermonte era caduta la neve. Le cime bianche e aguzze si stagliavano nel cielo con violenza e si era solo ai primi di dicembre.

Nicolò era stato via per sbrigare alcune faccende. Da quando era ritornato a casa il camino non smetteva di fumare. Ci prendeva gusto a raccogliere la legna durante il giorno, ad accendere il fuoco, a guardare i ceppi bruciare, sentire l’ambiente riscaldarsi. Lì, davanti al focolare, con un libro in mano, passava intere serate a leggere, sonnecchiare, fantasticare, ricordare ancora qualche briciola d’infanzia, qualche momento della sua vita tumultuosa. Era cambiato molto in quegli ultimi tempi, gli faceva persino impressione pensarci. Eppure, nonostante ciò, nonostante tutti i cambiamenti, qualcosa in lui si rifiutava di cambiare.

In quel momento qualcuno bussò alla porta. Chi poteva essere con quel tempaccio? Andò ad aprire.

Non l’avrebbe mai detto. Si trovò faccia a faccia con don Scarafago. Il prete, per una serie di ragioni, aveva dovuto uscire. Ora, trovandosi a passare vicino alla casa dei D’Alessio, aveva pensato di fare visita al proprietario.

Nicolò, piuttosto contrariato da quella visita inattesa, si era messo a guardarlo stranamente. Don Scarafago era vecchio e faceva fatica a tener fermo l’ombrello a causa delle forti raffiche di vento e di pioggia.

Nicolò non lo salutò, non lo invitò neppure ad entrare, rimase lì ad osservarlo, chiedendosi cosa mai avrebbe potuto volere da lui a quell’ora.

Il prete ruppe il silenzio dicendo: “Quella buonanima di sua madre era una brava donna. Dio abbia pietà di lei. Riposi in pace. Così, finalmente, la pecorella smarrita è ritornata all’ovile, che Dio benedica anche lei, figliolo mio, anche se da quando è arrivato non l’ho visto una sola volta in chiesa.”

L’aveva chiamato “figliolo mio”. Ma lui non era suo figlio. Suo padre era un lavoratore non un venditore di frottole. Nicolò incominciò a sentirsi a disagio di fronte a quell’essere.

Scarafago, abituato a parlare a gente che tace, continuò: “Una serata tempestosa questa. Dio ci ammonisce per il fardello dei peccati che si fa sempre più pesante sulle nostre spalle.”

No comment.

Il prete continuò: “Che freddo, ho le mani gelate.”

No comment.

Don Scarafago, sorpreso da quell’uomo taciturno, fece alzando la voce: “Non sente bene signor D’Alessio oppure ha perso la parola?”

Nicolò s’irrigidì, sentì qualcosa gonfiarsi dentro di lui, poi uno strappo e subito dopo si trovò in bocca una specie di grugnito. Sgravò: “Guayahù, guayahù tirantontùn!”

Il prete lo guardò stupito e fece: “Che lingua parla? Cosa significa Guaia …?”

Nessuna risposta.

“Capisco,” disse il prete pensando che scherzasse, mentre cercava di restare sotto l’ombrello per non bagnarsi. “Si vede che ha il senso dell’umorismo. A molti di noi, purtroppo manca. Eh sì, s’imparano tante cose all’estero, vero?”

“Guayahù, guayahù tirantontùn!” partorì di nuovo Nicolò.

“Se mi spiega cosa vogliono dire queste benedette parole, posso risponderle qualcosa. Alle mie orecchie suonano primitive, più vicine a versi animali che a quelli di esseri umani.”

Silenzio.

“Ah, ma allora questa è un’altra faccenda,” disse ora il prete credendo d’intuire il comportamento di Nicolò. “Peccato! Eppure mi avevano detto che lei si era fatta un’educazione all’estero, che aveva studiato, che era una persona … Insomma sta bene?”

Nicolò avrebbe voluto dirgli che era proprio perché aveva studiato e si era fatto un’educazione che si era allontanato dalla sua manfrina, ma non lo disse e, come una mummia, continuava a tacere.

“Le ho chiesto se sta bene!” insistette l’altro, questa volta  provocatoriamente.

E un’altra raffica di vento sibilò tra le foglie della quercia, un’altra scarica di pioggia, altri rumori non si udirono.

Scarafago, incalzato dal cattivo tempo, anche se non era stato invitato ad entrare, tentò di farlo. Inutile, Nicolò fermo e massiccio glielo impedì.

“Mio Dio, quest’uomo è pazzo!” esclamò a questo punto il prete.

E come risposta Nicolò gli piantò nelle pupille due occhi vigili e sfolgoranti.

“Mi faccia entrare!” insistette l’altro. “Non vede che mi sto bagnando tutto?”

Cosa aspetta ad andarsene? voleva dirgli, invece ripeté una volta ancora quegli strani grugniti: “Guayahù, guayahù tirantontùn!”

“Per me non ha senso quel rumore che lei emette,” fece Scarafago.

Come se il suo l’avesse, pensò Nicolò, ma ancora una volta tacque. E il silenzio calò di nuovo tra loro.

Il prete, comunque, non mollava, non se ne andava, sembrava voler entrare in quella casa a tutti i costi e chissà per quale ragione. Forse per il cattivo tempo, forse perché non intendeva rinunciare a qualcosa che gli era sempre stata, almeno tra i contadini di quel luogo, non soltanto riconosciuta come un suo diritto, ma anche come un onore e un favore che egli concedeva a loro, al suo gregge. No, Scarafago non voleva arrendersi. Insistette.

“Solo un minuto, il tempo per riscaldarmi le mani,” e cercò d’infilarsi dentro spingendo il padrone di casa da un lato.

A questo punto Nicolò capì ciò che doveva fare. Deciso respinse fuori quella creatura emettendo rumori incomprensibili e sdegnosi. Neanche in casa sua poteva più stare in pace. Una volta il Dritto, un’altra il prete, ma insomma!

Scarafago, convinto a questo punto di aver a che fare con un indemoniato, indietreggiò, lo guardò più con odio che con pietà e poi si allontanò in quella tormenta brontolando e gesticolando nel buio che via via lo andava inghiottendo.

 

 

 

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