Fiori di sierra, romanzo, la vita all’estero, parte seconda (1)

I

Amedeo sedeva di fianco alla tavola, le gambe accavallate, il gomito sinistro appoggiato a sostenere il capo con la mano. Un ciuffo di capelli inanellati neri gli cascava sulla fronte. I suoi occhi piccoli e penetranti scintillavano. Nicolò sedeva di fronte a lui. Avevano mangiato, ma continuavano a piluccare pezzettini di soppressata e a sorseggiare vino rosso. Amedeo, quando non beveva o mangiava, fumava, aveva un’aria allegra, continuava a sbirciare Nicolò. Più volte gli aveva chiesto d’iniziare a raccontare, ma lui non l’aveva ancora fatto. Esitava, pareva avesse cambiato idea oppure rifletteva su come cominciare a farlo.

“Racconta dunque!” gli dice impaziente. “Eri d’accordo che mi avresti raccontato della tua vita all’estero, cosa aspetti a incominciare?”

Nicolò lo guarda: “Lo farò.”

“Fallo allora!”

“Dammi ancora un minuto.”

“Anche due, anche cinque, ma poi inizia.”

“Certe esperienze non sono facili da raccontare.”

“Che tipo di esperienze?”

“Vedrai.”

“Bene. Vedrò.”

“E poi, per capire certe esperienze, caro Amedeo, bisognerebbe averle vissute.”

“Questo è un colpo basso, questo sì che puoi rimproverarmelo,” scatta Amedeo. “Le mie esperienze sono poche e sono anche banali.”

“Né colpo basso né rimprovero, mio caro” dice Nicolò. “Sappi comunque che la fine della nostra esistenza equivale alla totalità della nostra esperienza.”

“Questo suona come se tutto nella vita si riducesse ad una sporca addizione di atti materiali.”

“È da questi atti materiali che nascono le idee, le idee sane, umane, quelle che allontanano, almeno ad alcuni, dalla bestialità.”

“Vuoi iniziare a raccontare?” fa Amedeo sorvolando sulle ultime parole del cugino. “E mi raccomando, rimani, giustamente, vicino ai fatti.”

“La mia vita non conosce che questi.”

“Bene.”

“Anzi,” precisa Nicolò, “ci tengo a dire sin dall’inizio che il mio racconto non è finzione, it’s not fiction, è il racconto della mia vita. Perciò stai pure tranquillo, cugino, perché io la finzione, l’invenzione fantastica, la masturbazione intellettuale la lascio agli altri, a quelli che hanno avuto più fortuna di me. È dell’esperienza che mi porto dentro che ti parlerò, non di altro.”

“Sono tutto orecchie.”

“Lo vedo.”

“A proposito, come intendi procedere?” chiede Amedeo.

“Cosa?”

“Voglio dire, come intendi raccontarmi la tua vita?”

“Non ci avevo pensato. Ora che lo dici… Beh, diciamo all’antica. Ti narrerò tutto come facevano i cantastorie d’una volta.”

“Cioè?”

“In modo semplice e popolare.”

“Stupendo. Ora, però, inizia!”

“D’accordo. Comincerò da quando lasciai Calvario all’inizio degli anni Cinquanta. E ti prego, dato che non sono un narratore nato, se ti annoio con il mio racconto, dimmelo, perché io so anche tacere e amici come prima!”

“Staremo a vedere.”

E così, dopo qualche istante di raccoglimento, Nicolò inizia a narrare al cugino Amedeo la storia della sua vita all’estero.

“Arrivai a Colmar, in Francia, verso le nove, la sera dopo la mia partenza. La zia Carmelina, che doveva aspettarmi alla stazione, non c’era. Non conoscevo una parola di francese, non parlavo neppure l’italiano, soltanto il nostro dialetto. Attesi per più di un’ora invano. Nessuno venne a prendermi. Cominciai a preoccuparmi, a domandare alla gente se conosceva zia Carmelina. La risposta era:

Pardon?” 1

“Qu’est-ce que vous dites?” 2

“Comprends rien!” 3.

“Uno che ebbe il coraggio di fermarsi cercando di capire quello che dicevo, dopo un po’ fece al suo compagno:

“Je connais plusieurs langues, mais je n’arrive pas à déchiffrer  une seule parole de ce que dit ce marocain” 4 e se ne andò.

“Finalmente vidi arrivare un tassì e mi ci misi davanti per fermarlo. Quando l’autista si rese conto che non riusciva a capire nulla di quello che balbettavo, mi fece un segno con le mani e compresi che voleva chiedermi se avessi un indirizzo scritto. Glielo mostrai. Lo guardò, disse: “Monte!” aprendo la porta della macchina.

“Viaggiammo per tre quarti d’ora prima di arrivare ad una vecchia casa in aperta campagna. Non avevo soldi per pagare il tassista. Gli feci capire che doveva farsi pagare dalla zia. Diviene nervoso, comincia a suonare il clacson nel mezzo della notte. Nessuno si fa vivo. Scende, va alla porta e si mette a picchiare. Qualcuno grida da dentro:

“Che volete a quest’ora della notte?”

“L’uomo risponde qualcosa. Si accende la luce, la zia apre. È avvolta in una lunga vestaglia. Mai vista prima di allora. Il tassista le spiega che ci sono io in macchina e che lei deve pagare il tassì. La zia non si occupa di me, non dà neppure uno sguardo nella mia direzione, va a prendere il denaro. Al ritorno dice, buttandogli nelle mani degli spiccioli:

“È tutto quello che ho.”

“Lui li conta, mastica parolacce tra i denti. Poi, deciso, senza fiatare altro, viene da me, mi tira fuori dalla macchina, butta la mia roba per terra e parte come un razzo.

“Io raccolgo le mie cose e resto sulla strada con la valigia e un fagottino in mano aspettando che la zia mi saluti, mi dica di entrare.”

“Disgraziato!” me la sento urlare, “dovrai lavorare per tre mesi prima di guadagnare i soldi che ho dovuto pagare per te al tassista.”

“E fu così che ebbe inizio il mio soggiorno da zia Carmelina, a Colmar, in Alsazia.”

“Un bel caloroso benvenuto ti ha dato quella lì,” dice Amedeo. “Non  era  stata  lei  che  aveva scritto a tua madre dicendole che non aveva figli, che se la passava bene e che sarebbe stata felice di prenderti con sé?”

“Sì, lei,” fa Nicolò.

“Proprio una fetente!” sbotta Amedeo.

“Non solo. Anche una troia. Per due anni mi ha fatto scoppiare di lavoro. Gestiva un negozio di frutta e verdura alla periferia della città e lo mandava avanti da sola. Suo marito, Heino, più tedesco che francese, a forza di piantare e raccogliere le verdure che coltivava in un loro pezzo di terra, si era abbrutito. E non solo per il lavoro. Durante l’inverno, quando nevicava e fuori era tutto gelato, Heino restava in casa a bersi l’anima. Se usciva, non era per andare ad aiutare la moglie al negozio, ma per andare al bar. Ritornava a casa ubriaco.

“Raramente capivo quello che diceva e, quando si rivolgeva a me, rispondevo  “Ja, ja,” oppure “Oui, oui,” la prima cosa che imparai a dire vivendo con loro.

“Non chiesi mai a Carmelina, perché, una donna bella come lei, avesse sposato un essere così brutto e ubriacone. La zia, infatti, anche se aveva un caratteraccio e non sapeva sorridere, era veramente bella, specialmente la domenica quando si vestiva bene per andare in chiesa e si permetteva qualche ora di riposo.

“Comunque, dopo alcune settimane di convivenza, le mie mansioni divennero chiare. Dovevo aiutare la zia al negozio e Heino a zappare e a piantare verdure in quel loro campicello; a casa dovevo essere presente in tutto quello che c’era da fare: cucinare, servirli a tavola, lavare i piatti, pulire. In breve, ero diventato il loro factotum. Non mi lasciavano un minuto di riposo, nemmeno la domenica. Mai ne avevano abbastanza e divenivano sempre più esigenti. Se capitava che mi trovavano seduto, puoi immaginare il putiferio. Detestavo sentire la zia dirmi:

“Specie di fannullone, cosa credevi, che a casa mia si facesse la dolce vita?.”

E lui:

“Schnell, schnell, das ist nicht ein Ferienhaus!” 5

“Al negozio poi non ti dico. Tutte le mattine dovevo alzarmi presto, e se qualche volta restavo addormentato, la voce di lei, forte e rabbiosa, mi sparava nelle orecchie dicendomi:

“Alzati, buono a niente!”

“Un secondo dopo saltavo dal letto tutto insonnolito. Mi vestivo in fretta e furia, andavo in bagno, mi lavavo con dell’acqua gelata e poi andavo in cucina a bere la solita tazza di tè. Avrei voluto tenere nelle mani la tazza calda per riscaldarmele, ma non era possibile, gli occhi della zia mi dicevano che a quell’ora avrei dovuto essere già al negozio.

“Pioveva quasi sempre in quel luogo e quando non pioveva nevicava. Spesso arrivavo al negozio tutto bagnato e intirizzito. Una volta lì, aprivo la porta e portavo dentro le casse di frutta e verdura ch’erano già state scaricate lì davanti. Mi capitava di essere tutto inzuppato quando avevo finito. Mi cambiavo come potevo. Avevo sempre la tosse in quei tempi e non di rado la febbre.

“Una volta che avevo portato tutto dentro, scopavo e pulivo ogni cosa. A questo punto, come un orologio svizzero, arrivava lei, apriva il negozio al pubblico ed io restavo lì ad assisterla, a guardare la gente che entrava facendo rumori, che comprava facendo rumori e usciva facendo rumori. Non capivo un’acca di tutto quello che diceva. Anche la zia diventava per me un’extraterrestre in quelle sue conversazioni con i suoi clienti.

“Mi capitava, mentre ero lì, di aver fame, allora rubavo una mela e andavo a mangiarla nel cesso fuori nel cortile. Spesso, quando stavo per finire l’ultimo boccone, un suo strillo mi raggiungeva. Inghiottivo in fretta, tiravo lo sciacquone e poi correvo dalla padrona. Lei mi guardava con sospetto e disprezzo.

“Solo una volta scoprì ch’ero andato al cesso per mangiarmi una mela, perché non mi aveva dato il tempo di finire di mangiarla e lo scarico dell’acqua non era bastato per trascinarla con sé. Mi minacciò dicendomi che se avesse scoperto un’altra volta che rubavo le mele per andarmele a mangiare nel cesso, mi avrebbe cacciato di casa.

“Carmelina era dura. A volte provavo a dirle qualche parola amichevole, sorriderle, ma come potevo di fronte a quella sua faccia tanto impietrita? Rinunciavo, abbassavo gli occhi, mi sottomettevo a quella sua ferocia, riprendevo a riempire le casse di frutta, a pulire, a star lì sull’attenti, pronto ad ogni suo comando.

“Continuavo a vedere buchi nel mezzo delle facce che si aprivano, a udire rumori e a ignorarne il loro significato. Qualcuno a volte mi degnava d’uno sguardo, uno sguardo simpatico. Io, in quelle circostanze, arrossivo, fingevo di non vedere, mi affrettavo a raccogliere una patata oppure a fare qualcos’altro per sfuggire ad un qualunque contatto verbale.

“Nonostante la zia mi avesse detto che avrei dovuto aiutare anche il marito in quel loro pezzo di terra, in realtà questo non avvenne mai. Meglio così.

“Col tempo, per una ragione e per un’altra, Heino e Carmelina mi erano diventati odiosi. Mi investivano sempre con tanta violenza verbale e durezza di sentimenti che, alla fine, non trovavo più neppure il tempo di pensare alla mia rabbia. Avrei voluto lasciarli, ma non potevo. Non avevo un soldo. La zia non me ne dava. E poi non avevo la minima idea di dove andare, di cosa fare. Al massimo avrei potuto, se avessi trovato il denaro, ritornare a Calvario. Questo mai, preferivo morire lì.

“Una sera successe qualcosa. Heino, come al solito, arrivò a casa ubriaco. Lei, non appena lo vide, divenne pallida, le tremarono le mani a tal punto che lasciò cadere quello che teneva in mano. Aveva trascorso una giornataccia. Era di pessimo umore, incapace di controllarsi. Di solito Heino e Carmelina si sopportavano, si evitavano, non litigavano, insomma, si tolleravano. Questo era il loro modo di vivere insieme.

“Quella sera fu diverso. Carmelina, decisa, come lo vide entrare in quelle condizioni, si tirò su le maniche, andò dritta dritta verso di lui e l’attaccò prima con parolacce e poi gli si lanciò addosso coi pugni alzati gridando come una belva:

“Questa notte uno sporco beone come te non merita di avere un tetto sulla testa. Via, via da casa mia, abominevole canaglia!”

“La zia, quand’era arrabbiata nera, si esprimeva sempre con il nostro idioma.

“Per Heino, anche se non capiva nulla di quello che diceva, il suo aspetto, le sue parole e i suoi gesti erano chiarissimi. Si era bloccato vicino alla porta e aveva iniziato, sornione, a osservare attentamente le sue mosse. Era tanto cotto che pareva si sarebbe fracassato a terra da un momento all’altro. E invece no, riusciva a tenersi in bilico, pronto, se fosse stato necessario, a difendersi. Infatti, quando Carmelina si scagliò su di lui, con uno strattone si liberò e cominciò a picchiarla duramente urlandole:

“Scheisse! Du bist ein Luder! Das ist nicht dein Haus. Das ist mein Haus, verstehst du?” 6 ripetendo queste e altre imprecazioni e continuando a percuoterla.

“Lui  però  ne  incassava  più di quelle che dava. La donna tirava schiaffi, calci, pugni e morsicava come una bestia indiavolata, ed era difficile per lui, sbronzo com’era, evitarli.

“Io non mi ci misi fra loro. Non nutrivo nessun sentimento per quei due esseri. Che si sbranassero pure a vicenda. Li lasciai lì e me ne andai a letto nella mia stanza. Mi infilai sotto le coperte e restai lì calmo cercando di non sentirli, ma era impossibile.

“Si picchiarono e si insultarono a lungo. Ogni tanto sembrava che si fossero calmati, ma poi riprendevano. Udii infine la porta della camera da letto sbattere violentemente e subito dopo lo scatto della serratura seguito da un’altra scarica di ingiurie.

“Du musst raus, nicht ich, Schlampe! Ha, ha, ha!” 7

“Lurido vigliacco, gridava la zia, apri la porta!”

“Mi ero messo a ridere sotto le coperte e ridevo perché tutt’e due, mentre si ingiuriavano e si prendevano a botte, parlavano la loro lingua: Heino l’alsaziano e Carmelina il dialetto stiderese. Quei loro rumori verbali mi facevano ridere a più non posso.

“Heino, alla fine, si era chiuso a chiave nella camera lasciandola fuori.

“Ci fu qualche minuto di silenzio, poi una scarica di colpi sulla porta, poi più niente. L’uomo cominciò a russare. Udii dei passi insieme a mugolii soffocati di rabbia. Di nuovo tutto calmo.

“Poi il rumore riprese, mi sembrò vicino, ancora più vicino, la porta della mia stanza si apre e vedo la zia mezza svestita, tutta scarmigliata, ansante, il  volto  macchiato  di  sangue, che si avvicina al mio letto, si spoglia, s’infila dentro e si schianta contro di me tutta nuda.

“Il mio corpo, al contatto col suo, sembra infiammarsi, liquefarsi, un’emozione intensa mi stringe il cuore, mi toglie il respiro. Cerco di staccarmi da lei, di rimpicciolirmi tanto quanto posso, mettermi all’estremità del letto. Inutile, le mani e il corpo della zia sono ovunque.

“Fu quella notte, con quella donna piena di lividi, sporca, macchiata di sangue, dotata d’una lascivia animalesca, che io persi la verginità.”

Amedeo emette un fischio: “Proprio così?”

“Proprio così,” conferma Nicolò.

“E poi cos’è successo?”

“Tante cose.”

“Racconta.”

“L’avventura non si esaurì lì. Carmelina non era più la stessa, Carmelina era cambiata, si era trasformata in una ninfomane. Aveva sviluppato una pazza voglia di sesso e, col passare del tempo, questa sua smania libidinosa diveniva sempre più incalzante e imprevedibile. Quando il marito non era in casa, si poneva in mille posizioni dinanzi a me e mi spingeva continuamente a fare all’amore.

“Al negozio, non ti dico. Un giorno mise cinque volte il cartellino dietro la porta dicendo ch’era momentaneamente assente.

“Questa esperienza sessuale con la zia fu decisiva. Per certi versi, mise il diavolo in corpo anche a me e come risultato la mia vita cambiò tanto. Persino il mio fisico, che era stato sempre pallido, magro, glabro, s’invigorì, colorì e mise su peli. In un breve arco di tempo ci fu un vero e proprio slancio vitale in me, una crescita corporea e psichica, non mi riconoscevo più. Mi sentivo più forte, più deciso, un uomo.

“Heino, dopo qualche tempo, doveva essersi accorto della nostra relazione, perché la sera, durante la cena, non faceva altro che guardarci e, tutto d’un colpo, sbottava a ridere. Rideva e rideva e tanto sgangheratamente da farmi venire la voglia di spaccargli il muso. Lei, quando lui si comportava in quel modo, l’ignorava o gli dava degli spintoni. Allora lui si sbellicava ancora di più. Sicuramente sapeva, però se ne fregava.

“A me, col tempo, tutta quella commedia era diventata nauseante e insopportabile, incluso il sesso.

“In effetti, gli ultimi mesi trascorsi in quella casa furono atroci. Non sopportavo più quella situazione, per non dire di quel loro squallido modo di vivere insieme, da completi estranei, da persone che si usavano a vicenda ma non si amavano, non si capivano, non si conoscevano neppure minimamente, due mondi a parte, mi era diventato intollerabile. Mi apparivano come due burattini che si esibivano su un palcoscenico ignorando il ruolo che svolgevano.

“Tutto quel loro squallido fare di marito e moglie mi contaminava, mi deprimeva. Avvertivo che la loro era un’esistenza spoglia di qualsiasi stimolo che non fosse materiale; un’esistenza monotona, misera, stomachevole in cui la storia di un solo giorno racchiudeva gli accadimenti di tutti i giorni. Vivevano più da somari aggressivi che da esseri umani. Quel loro andare in chiesa tutte le domeniche come degli zombi creava in me una sensazione d’indescrivibile ripugnanza. La pratica religiosa non influiva sulla loro vita. Nulla influiva. Sempre gli stessi cafoni nel parlare e nell’agire. In loro il ‘sistema’ si era ormai incallito, li aveva condizionati per sempre, per sempre li aveva resi schiavi inconsapevoli della barbarie sociale.

“Quando compii diciott’anni, decisi che era ora di piantarli. Conoscevo qualche parola di francese e avevo un permesso di lavoro in Francia. Così, un giorno, mentre Heino era al bar e lei al negozio che mi aspettava, feci la mia valigia e me ne andai.”

“Né più, né meno?” fa Amedeo interrompendolo.

“Né più, né meno,” fa lui.

“Hai lasciato un messaggio?”

“No, me n’ero andato via e basta. Carmelina non aveva mai smesso di trattarmi duramente sia prima del nostro rapporto che dopo. Riversava su di me l’odio che nutriva per il marito, ne ero sicuro. Quando qualcosa non andava bene, non se la prendeva quasi mai con lui, ma con me. Ero diventato il parafulmine delle sue ire e ne aveva così tante che spesso mi ricordavano quelle della mamma.

“Denaro, prima del nostro rapporto, neppure un centesimo. Iniziò a darmi qualche franco solo dopo che era incominciata la nostra relazione. Per adescarmi, sovente mi prometteva dei soldi, ma il più delle volte poi non me li dava. Diceva:

“Una signora come me la si deve pagare. Non è certamente lei che deve pagare chi fa all’amore con lei, hai capito, cretinello?”

“Inoltre, gradualmente, le sue richieste erano diventate sempre più frequenti, bestiali, impossibili. Non ce la facevo più, maledizione, ma lei non voleva saperne!”

Amedeo, mentre ascolta il racconto di Nicolò, sembra, in un primo tempo, non credere a nulla di tutto quello che lui dice. Gli pare strano, inverosimile. Pensa che se lo stia inventando. Poi, via via, il racconto del cugino prende il sopravvento e si lascia pervadere.

“La mia esperienza con la zia finì lì.”

“E che esperienza!”

“Per me solo una delle tante che ha contribuito a fare di me ciò che sono.”

“Cos’hai fatto dopo aver lasciato la zia?”

“Tantissime cose. Prima di tutto, mi sono trovato solo, solo a fare i conti con la più feroce delle esperienze, quella della sopravvivenza. Anche se avevo compiuto diciotto anni, in realtà ero ancora un cucciolo e i cuccioli, nella giungla sociale, possono smarrirsi facilmente. Non è successo, come puoi notare, altrimenti non sarei qui a raccontarti la mia vita.”

“Continua,” fa Amedeo, “la tua storia m’incuriosisce.”

“E così, mio caro cugino, di brutto, senza preavviso e senza preparazione, una mattina ti alzi e vedi che intorno a te tutto è cambiato: la fauna umana, il cielo, il paesaggio, le case, i rumori, il modo di vivere, il cibo, ogni cosa, persino l’aria che respiri. Non stai sognando, sei in piena realtà, una realtà ben diversa da quella in cui sei nato e cresciuto.

“Incominci a cercare alloggio, a lavorare, a fare ogni tipo di lavoro che ti viene offerto, pur di guadagnare qualche soldo, pur di restare in vita; incominci anche a sviluppare qualche briciola di consapevolezza; inizi a renderti conto, nonostante i lavoracci che fai, che sei comunque sempre una bocca di troppo da sfamare, che hai una parlata incomprensibile, che nessuno ti capisce, ti stima, ti apre la porta, ti fa un gesto amico; realizzi che non hai famiglia, non hai parenti, non hai amici, sei figlio di nessuno: sei nessuno.

“Sanguini dall’anima e dal cuore, sei umiliato in ogni situazione e le botte si fanno sempre più dure.

“Chi sei?

“Un emigrato, perciò sfruttato, ignorato, disprezzato.

“Cos’hai?

“Niente.

“Cosa sai?

“Niente.

“Cosa rappresenti?

“Niente.

“Da dove vieni?

“È meglio non parlarne.”

“E il paesaggio si oscurò,” rincara la dose Amedeo in modo ironico.

“Puoi dirlo!” ribatte Nicolò.

“Ti credo.”

“Devi.”

“Perché devo?”

“Perché è così che io ho vissuto quel periodo della mia vita.”

“Stavi dicendo ch’era meglio non parlare della tua provenienza. E la ragione?” chiede Amedeo.

“A questo proposito voglio raccontarti uno dei miei primi assaggi di quei giorni e, guarda caso, proprio quello che ci voleva per rincuorarmi. Ricordo questo episodio come se fosse adesso. È andata così.

“Una sera, mentre mi aggiravo con lo stomaco vuoto e il cuore freddo in una piccola città, mi resi conto dell’amore che certe persone nutrivano verso di noi. Non avevo toccato cibo in tutto il giorno. Ero quasi senza soldi e quei pochi che avevo non volevo spenderli. La fame, però, alla fine, decise per me.

“Stavo per entrare in una trattoria quando vidi appeso alla porta un cartello con la scritta:

 

Vietato l’ingresso

ai cani

e agli italiani.

 

“Ecco qual era l’accoglienza, la stima, la mia realtà italiana all’estero, ecco in che mondo mi ero lanciato!

“Dal giorno in cui lasciai Heino e Carmelina, scoprii la mia vera identità, e cioè che non avevo nessuna identità, ero solo una merda. Detto diversamente, un morto di fame economicamente e un ignorante culturalmente.

“Da allora iniziai non soltanto a provare il grande sconforto dello straniero, della povertà, ma anche a sentire una terribile vergogna ovunque andassi e questo via via che venivo a conoscenza della mia nullità.

“Era difficile non sentirmi uno straccio, specialmente quando qualcuno che non era nemmeno italiano parlava la mia lingua e io non solo facevo fatica a capirlo, ma ero anche costretto a rispondergli in dialetto, io che ero italiano!

“Ignoravo tutto del paese in cui ero nato. Roma era veramente la capitale d’Italia? E l’Italia era una repubblica, una monarchia, uno stato fascista o cosa? E poi:

“Il comunismo, che cos’era?

“Il nazismo, che cos’era?

“La mafia, che cos’era?

“Non sapevo un’acca, non avevo la minima idea della geografia italiana e non parliamo di storia e di letteratura. Cosa volevano dire storia letteratura repubblica monarchia fascismo comunismo nazismo mafia, cosa? Mi sentivo il più indegno rappresentante del mio paese.”

“Perché avresti dovuto conoscere queste cose?” l’interruppe Amedeo. “Tu non eri all’estero in veste di professore, ma di lavoratore.”

“Sì, è vero,” fa Nicolò. “Però, vedi, una volta lasciata la zia, andai in cerca di lavoro. Ora, questo bisogno mi portò in diversi paesi. Ciò significava incontrare gente, e la gente è spesso curiosa, ti fa delle domande e, professore o no, si aspetta delle risposte, perché spesso le domande che fa la gente sono domande semplici, molto semplici, perciò si aspetta risposte semplici, risposte che tu, sul tuo paese, dovresti saper dare. Per esempio, come si chiama il presidente della repubblica? La Fiat, in che regione si trova? La Corsica è italiana o francese? Ebbene io non sapevo rispondere a nessuna di queste e mille altre domande. Sapevo qualcosa di Calvario, di Stìdero, della nostra regione Schidiscita, ma di questi posti nessuno mi chiedeva notizie. Insomma, soffrivo, subivo, subivo l’atroce tortura di scoprirmi un ignorante, un asino con tanto di patente di asino, hai capito?”

Amedeo lo guarda, dice: “Prosegui”.

“Al principio, quando qualcuno mi chiedeva di dov’ero, gli rispondevo, naturalmente, che ero italiano. Se poi domandava:

“Di dove?”

“Allora gli dicevo di Calvario.”

“E Calvario dove si trova?”

“Vicino a Stìdero.”

“E Stìdero?”

“Nella regione Schidiscita.”

“Sai, alcuni, non appena udivano questo nome, Schidiscita, mi piantavano come se avessi detto loro che avevo la peste.

“Una sera, sentendomi preda della solitudine, mi feci coraggio ed entrai in un luogo dove stava entrando tanta gente giovane. Era un dancing. Rimasi stupito. Stavo per uscire quando decisi di rimanere. Non sapevo ballare. Nonostante ciò, mi rianimai e invitai a ballare una ragazza brutta come la disgrazia. Disse “Ja” e danzammo insieme per una buona parte della serata senza scambiarci una parola. A me conveniva tacere, dato che conoscevo soltanto quelle poche espressioni che ti consentono sì e no di sopravvivere, non di più. In altre parole, linguisticamente parlando, sapevo fare solo “bau, bau” come fanno i cani. Questa era la mia parlata. Mi sembrava proprio di non sapere fare altro, eccetto che quel dannato “bau, bau.”

“Alla brutta, quella con cui stavo ballando, comunque, non ci volle troppo tempo a intuire che non ero del suo paese e tanto meno a capire che non sapevo muovere un piede. Questo non le importò. Si lasciava toccare, stringere e io, con la fame di donne che avevo, ne approfittavo.

“Eravamo al centro della pista quando si mise a cercare i miei occhi, senz’altro per farmi domande. Povero me! Provai a stringerla, a limonarla ancora di più, a fare tutto quello che potevo per sfuggire a un contatto verbale. Avevo la tremarella tutte le volte che dovevo aprire bocca.

“Ja, ja.”

“Oui, oui.”

“Bau, bau” non bastavano più.

“Ah, sapessi quante volte in quei tempi avrei voluto che fossimo tutti muti, tutti bestie, animali senza parola!

“In ogni modo, la mia furbizia con la brutta non durò a lungo. Ad un certo punto, visto che non riusciva a incontrare i miei occhi, mi scosse e poi mi chiese:

“Di dove sei?”

“Di Stìdero.”

“Di Stìdero?”

“Sì, di Stìdero.”

“Dove si trova Stìdero?”

“In Italia.”

“Dove in Italia?”

“Giù.”

“Giù dove?”

“Te l’ho detto, a Stìdero.”

“E dov’è questo benedetto Stìdero?”

“Nella regione Schidiscita.”

“E cos’ha di speciale questa regione?”

“Boh!” venne spontaneo di dire a me tra la rabbia e la frustrazione.

“Lei, allora, senza dire altro, smise di ballare lì nel mezzo della pista, mi guardò con disprezzo e poi mi piantò là e se ne andò.”

“Di dov’era la bruttona?” non può fare a meno di chiedere Amedeo.

“Che importanza vuoi che abbia di dov’era! Era la stessa e medesima cosa ovunque. Ognuno, quando meno te l’aspetti, ha il suo modo di umiliarti se sei un ignorante. Certo non tutti ti dicono in faccia quello che pensano o ti piantano nel mezzo d’una pista da ballo e poi se ne vanno e questo, credimi, è ancora peggio.

“Non invitai nessun’altra ragazza a ballare quella sera. Ritornai a casa maledicendo me stesso per essere entrato in quel locale.”

Amedeo intuisce, gli pare di capire.

Nicolò smette di parlare, si alza, fa due passi, si versa del vino, beve, si risiede, riprende il racconto.

“Incontrai anche persone del nord Italia. Alcune, non appena mi sentivano parlare, non appena avevano identificato il mio accento, quindi la regione da cui provenivo. mi disprezzavano già. Per loro io rappresentavo la parte più obbrobriosa del paese, la parte criminale, mafiosa, banditesca, la parte che si rifiutava di crescere, sottosviluppata, affamata, che aveva bisogno dell’assistenzialismo per sopravvivere; la parte, tout court, che non trova il coraggio di ribellarsi alle ingiustizie che vengono dall’alto, quindi condannata a vivere, non solo col danno, ma anche con la beffa.

“Allora tutto ciò non riuscivo a spiegarmelo e volevo, volevo, credimi, potermelo spiegare. Soffrivo della mia ignoranza. Era diventata più atroce della fame. Mai animale si era sentito più isolato, umiliato, solo. Era la consapevolezza di essere un incolto che era scoppiata in me. Mi sentivo un asino, un nulla, un niente di niente. Questo supplizio era nuovo nella mia vita.

“I lavori duri e umilianti che facevo in quei tempi – pulire fogne, scaricare merci al mercato alle cinque del mattino, lavorare nei cantieri edili, lavare piatti e pulire ristoranti – erano niente in confronto alla mia ignoranza. E più la mia coscienza si svegliava, più soffrivo. Nei momenti di disperazione mi veniva voglia di fare pazzie, mi sentivo contemporaneamente afferrare da un senso d’impotenza e di bestialità. Questa mi spingeva ad azioni brutali, l’altra alla vigliaccheria e alla sottomissione.

“Gradualmente cambiai o, forse, sono state le mie esperienze che mi hanno cambiato. Mi feci furbo. In certe situazioni non sono l’intelligenza, l’educazione, l’istruzione che ti aiutano a restare in vita, ma la furbizia. Mi feci amico di questa prostituta che, nel mio caso, voleva dire farsi amico della sopravvivenza.

“Avevo qualcosa a mio vantaggio: la zia e la bruttona me l’avevano fatto intuire. Avevo una statura superiore a molti e non ero brutto. Capii che questo poteva essermi utile. Mi misi all’opera arrovellandomi il cervello notte e giorno per vedere come avrei potuto sfruttare al meglio questa opportunità.

“Non fu difficile. La maggior parte della gente che incontravo, lavoro a parte, badava più alla forma che al contenuto. Benissimo, cosa occorreva di più? Niente, solo disegnarmi una falsa identità. È proprio quello che feci. Certo, all’inizio di questa nuova avventura, inesperto com’ero, mi capitò di non recitare bene il ruolo del dottor Jekyll, quindi di essere scoperto, ma questo faceva parte del gioco, dovevo accettarlo. Così, quand’ero con gente nuova, il dialogo prendeva una nuova svolta:

“Di dov’è?”

“Io? Io sono italiano.”

“Di che parte dell’Italia?”

“Indovini?”

“Del nord?”

“Azzeccato!”

“All’estero un italiano del nord è visto meglio che uno del sud. Quest’ultimo spesso è considerato come una creatura del Terzo Mondo. Iniziai, con quelli con cui potevo farlo, a spacciarmi per uno del nord, particolarmente dopo che un milanese, una volta, mentre viaggiavamo in treno, e vai a capire il perché, non aveva smesso di parlarmi di Milano e di Trieste. Questo tipo mi aveva fornito alcune nozioni sulle due città che in seguito mi permisero di fare allusioni in conversazioni superficiali, e le conversazioni che io sostenevo con la gente, erano tutte superficiali. Io non sapevo niente, Amedeo, perciò facevo fiamma di ogni ramoscello. Ero tutt’orecchi non appena gli altri aprivano bocca. E poi? E poi scimmiottavo i loro modi.

“Avevo anche, per mia fortuna o sfortuna, cominciato a seguire corsi serali di lingua. Qui il mio orgoglio fu pubblicamente calpestato. Non sopportavo la mia ignoranza; non sopportavo non saper spiegare in classe cos’era una parola, un articolo, un aggettivo, un avverbio, un tempo, facendo la figura dell’asino ad ogni domanda dell’insegnante e di fronte a tutta la classe, una classe composta da studenti che provenivano da ogni parte del mondo.

“Una volta il professore aveva detto:

“Ragazzi, incominciate a puzzare da dove volete, ma, per favore, non dalla testa!”

“Mi ci volle del tempo prima di capire il senso di queste parole; mi ci volle ancora altro tempo per capire che ero stato io a dargli lo spunto per dirle. Ti rendi conto, Amedeo, quello ero proprio io! Ero proprio io! Aveva ragione: la mia testa puzzava! Io stesso sentivo, letteralmente sentivo che la mia testa puzzava. Era scoppiata in me la consapevolezza che ero una persona che puzzava. Secondo un proverbio russo, pare che i pesci inizino a puzzare proprio dalla testa. Ma non solo i pesci! Anch’io avevo iniziato a puzzare dalla testa. La mia testa, anche se giovane, era piena di roba vecchia, piena di nonsenso, di lordume. Era il marcio che mi portavo dentro che aveva cominciato ad umiliarmi, sporcarmi, distruggermi. Avevo l’impressione che chiunque si fosse avvicinato a me, avrebbe sentito il mio fetore.

“Per un lungo periodo non mi avvicinai a nessuno, mi appartavo, non uscivo, avevo smesso anche di andare a scuola, avevo paura che la gente avvertisse l’odore puzzolente che proveniva dalla mia testa. Ero diventato peggio di Rocco, un siciliano, un povero disgraziato, con un naso enorme, spugnoso e a uncino, che aveva vergogna di farselo vedere in giro. Trascorreva tutti i giorni di festa chiuso nella sua camera. Così io: mi chiudevo in camera per paura che, se fossi uscito, la gente avrebbe sentito il puzzo che scaturiva dalla mia testa. Era inutile che mi tagliassi i capelli, inutile che li lavassi, inutile che mettessi profumo. Anzi, quando lo facevo, avevo l’impressione di puzzare ancora di più. Ero arrivato al punto di pensare che quando la gente mi guardava, lo faceva per il puzzo che veniva dalla mia testa.

“Poi, ho dovuto farmi coraggio e, malgrado tutti i complessi, tutti i problemi, gli imbarazzi, le umiliazioni, malgrado il logorìo interiore, ripresi ad andare a scuola. Non avevo scelta se volevo migliorarmi. E volevo!

“Questa, la scuola, pian piano, puliva la mia testa e il puzzo si sentiva meno. Continuavo a studiare con interesse sempre maggiore, sempre con impegno e, quando riuscivo a risparmiare del denaro, mi facevo dare anche lezioni private.

“Fu allora che capii che non potevo puntare solo sul mio aspetto. Questo, prima o poi, si sarebbe sbiadito, trasformato e sicuramente non in bellezza. Il tempo logora tutto; il tempo demolisce tutto. Dovevo puntare su mente, spirito, intelligenza, su tutto quello che non poteva essere facilmente distrutto e, per farlo, avevo bisogno della mia forza di volontà. Questa non mi ha mai tradito. Avrei dovuto fare a vent’anni quello che non avevo potuto fare dai nove anni in poi. Dovevo studiare, studiare, studiare per togliermi il puzzo che mi portavo in testa, l’ignoranza che mi trascinavo dietro. Dovevo ripartire da zero, farmi un’educazione, un’istruzione, conquistare una mia dignità, cercare di diventare un essere umano e non rimanere un primitivo: un asino con tanto di patente!

“Andare a scuola voleva anche dire incontrare persone più istruite di quelle con cui lavoravo e io lavoravo, per la maggior parte del tempo, negli edifici in costruzione, nelle fabbriche, nelle fonderie, nelle miniere. In questi posti di lavoro incontravo gente, il più delle volte, ignorante. Questo mi rendeva furioso. Trascorrere il giorno con gente che aveva una testa tanto puzzolente quanto la mia, mi sconvolgeva; esaurire le mie energie fisiche in un lavoro che aborrivo, mi diveniva intollerabile; esporre il mio corpo giorno dopo giorno a tutte le intemperie, mi esasperava; ritornare tutte le sere in un miserabile dormitorio, mi faceva letteralmente impazzire.

“A volte lasciavo il lavoro duro che stavo facendo e provavo a cercarmene uno meno faticoso, per poter seguire meglio i miei corsi, ma non avendo un mestiere, un pezzo di carta, un accidente che provasse che io fossi un po’ istruito, era impossibile trovarlo. Allora, quando non avevo lavoro e rimanevo senza un soldo, non mi restava che accettare tutto!

“Una sera, a Strasburgo, mentre ritorno a casa a piedi, vedo un vigile in una piazza. Sono stanco, irritato, bagnato fino alle ossa, perché ho lavorato tutto il giorno sotto la pioggia al montaggio d’una impalcatura per la ristrutturazione d’un ponte. Piove ancora. Ho lezione alle nove, ma chi ha voglia di andare a scuola così conciato? Mi sento inconsolabile, vorrei prendermela con qualcuno, ammazzare il diavolo. Mi salta in testa, lì per lì, un’idea: andare da quel pizzardone, dargli uno schiaffo e farmi mettere in carcere. Non ho la minima cognizione del perché mi sia venuta in mente quell’idea, penso che sia solo pazzia, che sto diventando matto. Invece no, non stavo diventando matto, c’era una ragione in quell’idea tanto disperata e assurda quanto sensata: volevo essere messo in prigione, stare in un posto all’asciutto per un po’ e, se possibile, con cibo, libri e riposo!

“L’acqua scende a catinelle da un cielo plumbeo freddo opprimente; i fasci di luce dei lampioni sono intensi, aggressivi. Le automobili che passano sulla strada in riparazione schizzano fanghiglia da tutte le parti, la poca gente che si trova in giro si muove in fretta, corre. Più penso alla cosa che sto per fare, più un gusto spettrale s’impossessa di me. Da un momento all’altro, tutto mi diviene estraneo ostile nemico. Continuo ad avanzare deciso verso il vigile. Allungo il passo, mi avvicino a lui e prima che se ne accorga, si becca un ceffone che lo fa traballare.

“È anziano, l’infelice, anch’egli è intirizzito dal freddo. Per qualche istante sembra disorientato, incapace di reagire. Quando però realizza cos’è avvenuto, mi guarda pietrificato, mi domanda se sono matto. Non rispondo, resto là immobile aspettando che mi porti in prigione. Non lo fa, non sa decidersi. Mi squadra ben bene dalla testa ai piedi, si tasta la faccia, dice:

Fous moi le camp, avant que je ne te casse la gueule à mon tour!” 8

“E così niente prigione, niente cibo gratuito, niente libri e niente riposo!”

Nicolò smette di raccontare. Finisce di bere il vino che c’è nel suo bicchiere, addenta un pezzo di soppressata, guarda il cugino, guarda in giro per la cucina, fa: “Bella la vita all’estero, vero cugino?”

“Per nulla noiosa,” risponde Amedeo e accende un’ennesima sigaretta, poi riempie i bicchieri di vino, bevono e, dopo questa breve pausa, Nicolò prosegue con la storia della sua vita all’estero.

“Bene, continuavo a seguire i corsi nonostante tutti gli inconvenienti, non smettevo di perfezionarmi nell’arte del dottor Jekyll e del signor Hyde, divenivo più spietato e pronto a raccontare qualsiasi cretinata, purché mi desse un vantaggio qualsiasi.

“Incominciai anche a fare attenzione nel vestire. Quando avevo soldi, mi compravo abiti eleganti e, quando andavo in cerca d’una camera in affitto, non mi presentavo più come un pezzente operaio analfabeta, ma come il rappresentante d’una azienda italiana. Traslocavo non appena i vicini scoprivano la mia vera identità. Solo a scuola e sul lavoro mi conoscevano per quello che ero, altrove ero sempre un altro.

“Il lavoro d’un  manovale  è  un  lavoro  che  si  fa  con  le  mani e quindi i calli, la sporcizia che si attacca alle dita, alle unghie e le ferite e le screpolature e quant’altro te le rendono brutte; basta vederle e sei subito classificato. Ebbene, per evitare questo problema, avevo iniziato a lavorare con un paio di guanti. Ciò mi metteva spesso in difficoltà col capo, ma non sopportavo di essere smascherato esibendo mani da badile mentre ero in compagnia di gente che non mi conosceva.

“Così ho imparato che non dovevo prendermi cura solo della testa, ma anche del resto del mio corpo. Lo facevo. Col tempo, le mie  mani divennero belle, morbide e, nell’insieme, il mio abbigliamento e il mio portamento cambiarono in meglio.

“Questi cambiamenti fisici e mentali mi facevano diventare, almeno nei giorni di festa, un bel giovane e un artista delle frottole. Ne raccontavo di tutti i tipi e di tutti i colori. La cosa più buffa era che c’era gente che non mi credeva persino quando dicevo la verità! E io continuavo a mentire. Ricordo un episodio particolare.

“Una domenica, mentre pranzavo in un ristorante, il cameriere portò a sedere al mio tavolo una signora. Dopo un ‘Buon appetito!’, cominciammo a parlare. Più tardi mi disse:

“Come parla bene!”

“Io?”

“C’è stile, contenuto nel modo in cui si esprime.”

“A me sembra di far schifo quando apro bocca.”

“Lei?”

“Non riesco ad articolare uno solo dei miei pensieri.”

“Mi vuole prendere in giro?”

“Non mi permetterei. È la verità.”

“Ma ne ha già articolati parecchi dei suoi pensieri, e interessanti anche.”

“Cose di poco conto.”

“Tutt’altro.”

“Vede, se vuole proprio saperlo, io sono un insolente illetterato, un abietto proletario, un impostore a cui piace ingannare la gente.”

“A me, lei non m’inganna.”

“Vuole che le faccia vedere la carta d’identità, la mia ignobile immatricolazione sociale?”

“Ancora più arguto. Complimenti!”

“Cosa?” faccio io.

“Ora prenda il caffè e la smetta di raccontare bugie. È molto intelligente, lo so. Avvocato? Professore?”

“A questo punto non insistetti più. Dissi:

“Che ne direbbe lei?”

“Dottore in legge.”

“Come ha fatto a indovinare?”

“Da come parla, da come veste, da come mangia,” (avevo imparato anche l’etichetta da tenere a tavola).

“Ne sono molto lusingato.”

“Mi tolga un’altra curiosità,” incalzò lei, “di che parte d’Italia è?”

“Provi a dedurlo.”

“Un giovane alto snello bruno come lei non può essere che del nord, giusto?”

“Giusto. Però,” faccio io, “questo era facile da scoprire. Adesso provi a dirmi da che parte del nord?”

“Direi di Milano.”

“Peccato, questa volta ha sbagliato.”

“Ne ero quasi convinta.”

“Quasi, ma non del tutto. Sono di Trieste, cara lei, città di mare, di sole, di gente alta, bella e internazionale. C’è mai stata?”

A questo punto del racconto Amedeo l’interrompe dicendo: “Non c’era nulla di moralmente dignitoso nel tuo comportamento, per non dire che non aiutava affatto la reputazione del nostro paese.”

“Puoi rimproverarmi la condotta,” ribatte freddamente Nicolò. “Ma lascia che ti dica che la morale, per me, in quei tempi, non aveva nessun significato, non sapevo neppure che esistesse. Ero, a dir poco, amorale in tutti i sensi. Certo, è chiaro, il mio fare, per quanto fossi amorale, mi pesava. Ero anch’io, dopo tutto, un essere umano! Solo che mi rifiutavo, categoricamente mi rifiutavo persino di pensarci. Ero pronto a tutto.

“Riguardo al nuocere alla reputazione del nostro amatissimo paese, se vuoi proprio saperlo, non me ne importava un accidente. Anzi, avevo incominciato a odiarlo. Era stato il primo a sfruttarmi, a lasciarmi sul lastrico e nelle tenebre.”

“Capisco,” fa Amedeo.

“Io no,” dice Nicolò.

“Continua.”

“E così, via via, facendo questo e provando quest’altro, ho scoperto ch’ero una miniera, una miniera di potenzialità umane. Non mi restava, dunque, che estrarre il materiale che necessitavo dal mio organismo. Dovevo lavorare sul mio magma, educarlo, modellarlo, affinarlo, trasformarlo in cultura.

“C’era altro: grazie alla scuola, il puzzo che emanava la mia testa stava diminuendo e questo, se non altro, era un conforto.

“Non smettevo di meravigliarmi. Osavo, osavo, osavo! Divenivo astuto, ambizioso, calcolatore; frequentavo luoghi di cultura, persone istruite e più lo facevo più il mio desiderio di scoprirmi e migliorarmi si accendeva, diveniva, in due parole, una sfida!”

A questo punto Nicolò, senza che il cugino se l’aspettasse, si alza dicendo: “Per questa volta, caro Amedeo, il racconto si ferma qui. Lo riprenderemo, se vuoi, domani sera.”

 

1  Scusi?

2  Cosa dice?

3  Non capisco niente!

4  Io conosco molte lingue, ma non arrivo a capire una sola parola di ciò che dice questo marocchino.

5 Presto, presto, questa non è una casa per vacanze!

6 Merda! Tu sei una puttana! Questa non è casa tua. Questa è casa mia, capisci?

7 Tu devi andartene, non io, troia! Ha, ha, ha!

8 Vattene via, prima che ti rompa la faccia a mia volta!

 

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