Fiori di sierra, romanzo, la vita all’estero, parte seconda (2)

II

Quella notte Nicolò dormì male, si alzò di cattivo umore. Gli frullavano delle cose in testa. Non riusciva a individuare la loro voce, venivano da terre lontane. Si sentiva diviso, a pezzi, frantumato. Miriadi di “io”, di tutte le dimensioni, scaturivano dalla sua mente e volavano via più veloci della luce in luoghi remoti. Vedeva il suo corpo andare a spasso per il mondo ma lui non c’era. Tutti quei Nicolò sparpagliati in quei posti, in quelle occupazioni, vicende: le sue battaglie, le sue avventure, la sua vita. Continuava a sorbire il caffè tutto assorto in quella pellicola silenziosa, in quelle immagini di vita trascorsa. Non si era neppure accorto che fuori c’era tanto sole, perché nessun raggio giungeva al suo cuore. Il fuoco si era trasformato in ghiaccio, il selvaggio in umano, il passato in presente.

Mentre era lì avvolto nei suoi ricordi, udì qualcuno bussare alla porta.

“Chi è?”

“Il postino.”

Era una lettera di Judy. Lei, Gaby e Sheryl sarebbero arrivate a Calvario prima della fine di settembre. Speravano di trovare tempo bello. Non doveva disturbarsi per loro perché avrebbero trovato la strada da sole. Si sarebbero accontentate di un cantuccio nella casa, se fosse stato disposto a sacrificarlo.

“Kisses and hugs from all!1

Judy veniva a trovarlo e da tanto lontano! Eppure, nonostante avesse lasciato di recente “quell’altro mondo”, gli era venuta in    mente solo poche volte da quando era arrivato a Calvario. Adesso, leggendo la lettera, qualcosa che stava dormendo in lui si svegliò, si schiarì e Nicolò iniziò a vedere immagini, udire parole.

“Abbiamo bisogno di un nuovo uomo,” diceva lui in inglese.

“Che tipo di uomo?” faceva Judy.

“Uno che non sia un parassita; uno che ami gli uomini e non li fotta.”

“Bene, ma che tipo di uomo è?” insisteva lei.

“Nuovo nel pensare, nuovo nel comportamento, nuovo in tutto.”

“Tu soffri di visioni, my dear friend,” 2 l’assaliva Judy con un inglese misto d’italiano.

“Ti sbagli. Le mie visioni sono realistiche,” ribadiva lui.

“E va bene, faceva lei. Vediamo allora:  il tuo nuovo uomo assomiglia a un ariano, al Grande Fratello, ad uno creato dall’ingegneria genetica, oppure ad un uomo con un lungo lungo naso come quello di Pinocchio? Insomma, che tipo di uomo è?”

“Nessuno di quelli che hai menzionato tu. Io ti sto parlando di un nuovo uomo e l’intendo nuovo nel tessuto sociale di oggi, altrimenti è vecchissimo.”

“Aaah yes,” ridacchiava lei. E poi decisa: “Non mi far ridere! Te l’ho detto, tu soffri di visioni utopistiche, ecco tutto!”

“Io non soffro di visioni utopistiche,” alzava la voce Nicolò. “Sei tu che non capisci mai nulla di quello che dico.”

“Ma tu sì!”

“Sei una bella troia, solo una bella troia e niente altro.”

“And you a son of a bitch,” 3

“Sai, francamente, non ho la più pallida idea di cosa avrei fatto senza di te! Sei la mia fortuna, Judy,” aveva finito per dirle lui buttandosi su di lei.

“Questo sì che è parlare!” mugolava lei mentre si abbandonava alla sua passione.

Le loro conversazioni erudite terminavano spesso in questo modo.

Che venga pure, disse Nicolò tra sé e sé. Per  ospitarle avrebbe dovuto comprare un letto per Sheryl e uno per Gaby, per il resto, nel caso avessero avuto bisogno d’altro, avrebbero potuto procurarselo loro una volta lì.

Qualcuno, in quel mentre, venne a distoglierlo dai suoi pensieri.

“Con questo tempo bisognerebbe essere sui monti, nei campi, ovunque, ma non in casa.”

Era Michele vestito da cacciatore e col fucile in spalla.

Nicolò, come lo vide, capì che l’amico era di ottimo umore. Chiese: “Qual buon vento ti porta da queste parti?”

“Quello dell’amore e dell’amicizia,” rispose lui tutto sorridente.

“Sento odore di felicità, sapore di confetti.”

“Puoi dirlo. Ci sposeremo il primo sabato di ottobre in municipio e festeggeremo a casa mia. Maddalena e io ti vogliamo lì.”

“Sarà un onore e un piacere.”

“Anche per noi.”

“Vieni, entra. Hai bevuto il caffè?”

“Sì, però ne berrei volentieri un altro,” rispose Michele posando il fucile in un angolo.

Mentre Nicolò preparava il caffè, lui diede un’occhiata in giro per la casa. Notò la moquette nella camera da letto, ma non fece commenti. Quando ritornò in cucina si limitò a dire: “Pare che mastro Nicodemo abbia fatto un buon lavoro.”

“Non c’è male,” fece Nicolò versando il liquido nelle tazze.

Bevuto il caffè, i due amici decisero di andare sull’Agave e, per arrivare in cima al più presto, presero una loro vecchia scorciatoia. Mentre salivano, Michele chiedeva:

“Ti ricordi di questo passaggio?”

“Nei minimi dettagli.”

“E di quest’altro?”

“Come se fosse ieri.”

”E ti ricordi anche di quel giorno che abbiamo incontrato il prete, don Barto, con la carabina in mano?”

“Ogni gesto e parola.”

“Ci aveva fatto paura. Non l’avevamo riconosciuto tutto vestito di nero com’era. Sembrava un diavolo!”

“Proprio così.”

“Che roba! Ci era piombato davanti come un fulmine, sudato, col viso livido dalla rabbia, chiedendoci se avessimo visto Cicciu u Grandi, quello che corteggiava sua nipote. Che poi, se ricordi, lei non era sua nipote, ma una serva-concubina che lui manteneva per i suoi comodi. Era gelosissimo. Il povero Cicciu dovette squagliarsela per qualche tempo per paura che quel pretone, se l’avesse trovato, gli avrebbe sparato. Te lo ricordi?”

“E ti direi di più,” fece Nicolò. “Non era stato lo stesso prete che i fratelli Columbo avevano invitato a farsi una passeggiata e, non appena si erano allontanati dal paese, l’avevano picchiato e gli avevano sfregiato il pene?”

“Lui, eccome!”

“Tutto perché, si diceva, la sorella dei Columbo aveva raccontato ai fratelli che don Barto le chiedeva, quando andava a confessarsi, dove metteva le mani durante la notte, se dormiva con una camicia oppure nuda, se qualche volta le capitava di pensare ad altro oltre che al Signore, chi era quest’altro, come vestiva, se era bello, brutto, se l’aveva già incontrato, se aveva peccato con lui e se intendeva peccare di nuovo, e altre cose di questo genere.”

“Che batosta!”

“Non aveva voluto neppure denunciare i suoi castigatori per paura di uno scandalo e come risultato di quell’affronto, era sparito. In cambio ci avevano mandato quell’ubriacone di don Scarafago,” fece Nicolò.

“L’abbiamo ancora e non ha perso il vizio di bere,” disse Michele.

“Cos’altro, in fondo in fondo, possono fare questi infelici?” osservò Nicolò. “Il loro credo li spinge a costanti repressioni della carne e dello spirito e, di conseguenza, sono portati a negare la propria natura, il che li conduce ad atti estremi, fanatici e auto-punitivi.  Sono schiavi del loro delirio, vittime del loro abracadabra. In loro la nevrosi infuria. Ma il peggior male non è questo, il peggior male è che cercano d’insegnare agli altri come vivere, proprio loro che della vita ne sanno così poco. La nostra, caro Michele, è una cultura tutta da rifare.”

“Partendo da zero,” aggiunse lui.

Quando arrivarono sulla cima dell’Agave, erano ansanti.

“Che bella salita!” fece Michele.

“Fantastica!” disse Nicolò.

Rimasero in silenzio fianco a fianco. Più s’immergevano in quello che li circondava, più tacevano. La giornata era limpida e tutto era pieno di vita e di sole. Continuavano a restare in silenzio. Quante volte da ragazzi avevano visto quel panorama senza avvertire l’ineffabile sensazione che sentivano adesso. Allora trovavano sempre delle parole da dire, poco importava quanto fossero banali. Ora invece intuivano che questo non bastava più. Meglio tacere che parlare a casaccio e tacquero ancora, tenendo ognuno per sé le sensazioni provate di fronte alla vista che si dischiudeva intorno a loro.

Si sedettero, ritrovarono la parola. Michele puntando la mano verso Stìdero, disse: “Vedi quei fumaioli laggiù in fondo, sulla sinistra? Sicuramente non c’erano quando tu eri qui. Se guardi un pochino più in giù puoi vedere che c’è anche un porto. Tutto appartiene al signor Lazzaro.”

“Lo so,” rispose Nicolò.

Lazzaro, il signor Lazzaro, aveva un passato losco. A sedici anni accoltellò un suo compagno di classe perché aveva parlato con la “sua” ragazza. Più tardi divenne un esaltato del regime fascista. Quando cadde il fascismo cambiò bandiera: monarchico. Un giorno rischiò di farsi fucilare dai partigiani. Si salvò unendosi a loro, tradendo i compagni e facendo lo spione. Poi, alla prima occasione, disertò. Durante questo periodo regolò i conti con alcuni “elementi fastidiosi”. Alla figlia di uno di questi, dopo averla violata, fece fare la stessa fine del padre: la buttò in un pozzo. In seguito si ripulì dalla lordura morale e dalle mani sporche di sangue facendosi repubblicano. Poco dopo lo nominarono presidente d’una organizzazione edilizia. Qui, al momento opportuno, rubò tutto quello che c’era da rubare e scappò. Mentre era via si trovò un avvocato e poi si presentò al processo. Fu condannato lo stesso per frode, ma la prigione non l’assaggiò neanche per un’ora: aveva conoscenze, lui!

Non era del posto, ma aveva degli amici. Si fidanzò con la figlia del suo difensore e se la sposò. Dopo la guerra, con i soldi che aveva rubato e con l’aiuto economico del suocero, costruì una fornace, l’unica del suo genere nella regione di Schidiscita e comprò un camion. Iniziò con un pugno di lavoratori, quasi tutti ragazzi, pagandoli quattro soldi e sfruttandoli tanto quanto poteva.

Gradualmente si ingrandì, divenne ricco, miliardario. Ora aveva più di cento operai ed era diventato molto potente. Tutto ciò non gli bastava, era molto ambizioso. Voleva vedere, prima di morire, uno dei figli sindaco di Stìdero prima, e poi a Roma al parlamento. Difatti, Girolamo, il figlio maggiore, si era presentato come candidato democristiano alle ultime elezioni. Ci mancò poco che non le vincesse.

Michele, dopo una piccola riflessione, mise una mano sulla spalla dell’amico, dicendo:

“Scusa se ho menzionato quest’uomo. Mi è venuto in mente che da ragazzo hai lavorato per lui. Forse non vuoi ricordare quel periodo della tua vita.”

“Non devi scusarti affatto,” disse pronto Nicolò. “Io sono orgoglioso di tutto quello che ho fatto nella mia vita e particolarmente di quand’ero un ragazzo. Non ho mai dimenticato questa mia età. E non soltanto questa. Tutta la mia esistenza balla innanzi a me in ogni momento.”

“A me invece deprime solo a pensarla, la mia infanzia,” fece Michele.

Nicolò lo guardò e cambiando tono e diapason, fece:

“È veramente maestoso il panorama davanti a noi. Qualcuno ha detto che questo paese ha ricevuto dalla natura la bellezza del paesaggio e dagli uomini quella dell’arte e pare che sia proprio così.”

“Costui ha dimenticato di aggiungere la schifezza del mal governo,” disse Michele. “E poi è tutto sentimentalismo. Al contadino di Calvario raramente salta il ticchio di arrampicarsi quassù. Per lui sarebbe stato meglio se l’Agave non fosse esistito e neppure gli altri monti e colline. Tutto piatto avrebbe dovuto essere, così avrebbe potuto trarre profitto seminando e piantando alberi da frutto. Quelli che apprezzano il panorama di questo paese non sono certo quelli che lo coltivano,” e dando un’occhiata all’orologio: “È ora che scendiamo. Ho promesso a mia madre che sarei ritornato a casa prima dell’una e se non mi vede arrivare per quest’ora si fa mille pensieri e tutti di malaugurio.”

“Sai una cosa?” disse Nicolò mentre scendevano, “stamattina ho ricevuto una lettera da Judy, la mia amica australiana che, con altre due ragazze, verrà a trovarmi verso la fine del mese.”

“Dovrai insegnarmi qualche parola d’inglese se vuoi che parli con loro,” fece Michele.

“Non è necessario, masticano abbastanza l’italiano,” disse Nicolò.

“Tanto meglio. Se saranno qui quando mi sposo, portale al matrimonio.”

“Se arrivano in tempo, lo farò.”

“Devo dire a mia madre che cucini per tre stasera?”

“No, grazie, stasera no. Ho già promesso ad Amedeo.”

 

1      Baci e abbracci da tutte.

2 Mio caro amico.

3 E tu un figlio di puttana.

 

 

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