Ha un senso la vita? (7)

Ec = p e diversità culturali

Non c’è una razza biologica, Rossi, ci sono solo diversità culturali. Certo ci sono i neri, i gialli, i bianchi, i creoli ecc., ma queste sono le caratteristiche della loro carnagione. Non vedo razze in questo, io, ma solo il colore diverso della pelle. Biologicamente, tutti i popoli sono uguali. Quello che li distingue, invece, è la loro cultura, questo sì. Gli italiani rappresentano una peculiarità culturale, non biologica, ma culturale. I paesi, tutti i paesi del mondo, rappresentano, ognuno a modo loro, un particolare modo di atteggiarsi nella vita, e questa è, appunto, una differenza culturale.

La cultura è fisica, è materiale, è, in realtà, un campo di forze fisiche incapsulate in sillabe, parole, espressioni. Se tu fossi un capitano e ordinassi ai tuoi soldati di “sparare” sul nemico, ti renderesti conto di quanti corpi fisici potrebbero morire solo perché tu hai pronunciato queste tre sillabe: spa-ra-re. Pensa ora a chi ordinò di sganciare la bomba atomica su Hiroshima e al macello fisico che combinarono le sue parole!

La cultura non è astratta, amico mio, è concreta, ancora più concreta del corpo. Dobbiamo toglierci dalla testa che la cultura sia astratta. Dobbiamo pensarla in modo concreto, come se ogni parola che diciamo fosse di acciaio. È importante essere consapevole di questo, importante sapere che ogni individuo è un campo di forza come lo è qualsiasi oggetto che sfreccia nei cieli. La differenza sta nel fatto che un oggetto fisico è solo un campo fisico di forze, mentre un individuo, oltre ad essere un campo fisico, è anche un campo di forza culturale. La forza culturale non risiede nella massa, ma nella conoscenza. Ecco la differenza tra le due. Possiamo fare un’equazione, proprio come ha fatto Einstein: e=mc2, energia uguale massa al quadrato, ossia tutto è relativo, soggettivo; così noi possiamo fare la nostra: ec=p, energia conoscitiva uguale a potenza.

Una civiltà è un campo di forza culturale relativo alla sua potenza conoscitiva. In termini culturali, ogni uomo è un campo di forza relativo alla sua cultura. La Terra è un agglomerato di culture. Ognuna di esse ha una sua forza, un suo dinamismo, una sua attrazione. Questa forza dipende dalla conoscenza che si è sviluppata in ciascuna di esse. Ci sono popoli che occupano enormi zone geografiche e altri piccole, ma questo non dice nulla della loro forza culturale, del loro ec=p.

La forza culturale, dunque, risiede non nella massa, ma nella conoscenza, conoscenza scientifica, tecnica, filosofica, artistica. Vuoi un esempio? Eccolo: prendi l’Africa e la Svezia e ci sei. Quest’ultima, nonostante sia piccolissima in confronto all’Africa, è, culturalmente parlando, più sviluppata, più potente, più tutto.

Voglio darti qualche altro esempio per farti capire bene ciò che intendo quando dico che non esiste una razza biologica, ma solo diversità culturali. Prendiamo un trapianto. Se il cuore di un giapponese, di un negro, di un indiano venisse trapiantato in un individuo bianco occidentale, questi non saprebbe, a meno che uno non glielo dicesse, di chi sia stato il cuore ricevuto, se di un giapponese, di un negro, di un indiano o di uno della sua stessa razza culturale. Se, invece, mettessimo in un ristorante un giapponese, un negro, un indiano e un italiano alla stessa tavola, vedremmo subito che la lingua, il discorso, il modo di mangiare e la scelta del cibo e delle bevande sarebbero molto diverse le une dalle altre. Dunque, non differenza biologica, ma differenza di lingue, di costumi, di gusti, di idee; non razza biologica, ma differenze culturali.

Un altro esempio. Un francese può fare bene l’amore con una tedesca, una negra, una cinese e trarne lo stesso piacere che trae da una francese. Anzi, forse di più. Forse di più perché l’idea di fare all’amore con una donna di un altro paese potrebbe eccitarlo più di quanto lo ecciterebbe una del suo paese. In ogni modo, i loro corpi sicuramente non discriminano sulla nazionalità, né sulla cultura, né sulla classe sociale a cui appartengono. Al massimo, quando si fa all’amore con una persona di nazionalità diversa, uno potrebbe preferire una postura e l’altro un’altra, ma queste differenze potrebbero anche essere più eccitanti.

Non è più la stessa cosa quando i nostri protagonisti iniziano a discutere di questo o quell’argomento. La loro formazione culturale, prima o poi, a meno che non siano di una grande apertura mentale, li dividerà, li ostacolerà e, il più delle volte, finirà per allontanarli definitivamente l’uno dall’altro. L’unico antidoto contro le differenze culturali è la conoscenza. Solo questa non conosce frontiere, come la biologia.

A questo riguardo gli inglesi hanno un bel detto: the king fucking the maid, their bodies never found out who was the king and who was the maid – il re si sta facendo la serva, i loro corpi non hanno scoperto mai chi era il re e chi era la serva.

Ognuno di noi, ovunque si trovi, si porta appresso il “marchio culturale” che il suo paese gli ha stampato nel cervello. È il suo Dna culturale. Ogni cultura, italiana, cinese, francese, russa o quella che sia, dà ai suoi rappresentanti, ai suoi piccoli “io” (si parlerà di questi ne Il Paese delle meraviglie), la propria visione delle cose. Le culture sono come occhiali colorati. Un paio di lenti blu trasformano in blu tutto ciò che si para loro di fronte; così un rappresentante della cultura indiana trasforma tutte le altre culture in culture indiane, proprio come le lenti colorate.

Se un italiano si trovasse di fronte all’Empire State Building o ad una statua del Buddha, se fosse all’oscuro della cultura dei grattacieli e di quella buddhista, non potrebbe, ovviamente, che farsi un’opinione dell’Empire State Building e della statua del Buddha secondo i parametri della cultura italiana. Detto diversamente, un italiano, fuori dalle frontiere italiane, trasforma tutto ciò che vede in italianità (qui non stiamo parlando stile Antistene, quando diceva a Platone che lui vedeva il cavallo e non la cavallinità). O, se vuoi, interpreta tutto ciò che vede secondo una visione italiana delle cose. Come il lavoro che facciamo, al dire di Marx, determina la nostra coscienza sociale, così la cultura in cui nasciamo determina la nostra visione della vita. È questa la nostra identità culturale, il nostro modo d’interpretare il mondo. È, per noi, una visione di fondo, qualcosa di cui non possiamo sbarazzarci facilmente. Qualunque cosa facciamo, vediamo, pensiamo o diciamo è, inevitabilmente, mescolata alla cultura con cui siamo cresciuti e vissuti.

Non è, dunque, la biologia a separarci dagli altri popoli, Rossi, mettitelo bene in testa, è la nostra visione culturale o, se vuoi, sono i nostri occhiali culturali. Dovunque andiamo, fuori dal nostro paese, ci sentiamo invasi, posseduti del marchio culturale che ci portiamo dalle fasce. Un marocchino si porterà dietro la visione marocchina della vita; lo stesso un inglese o qualsiasi altro uomo della Terra. Il nostro soggettivismo culturale ci fa vedere le cose secondo l’esperienza culturale che abbiamo ricevuto, secondo le lenti che ci ha dato la civiltà in cui siamo nati. Se tu sei siciliano, ovunque vai porti con te l’Etna, la Sicilia, il mare e la mentalità del luogo.

Certo, c’è anche la ragione. Questa ci aiuta a trascendere la nostra soggettività culturale: 2 + 2, per la ragione, farà sempre 4 ovunque ci troviamo sul nostro pianeta, e poco importano gli occhiali che portiamo.

 

Condizionamento o comportamentismo?

Se non le ha azzeccate tutte il padre del comportamentismo,  John B. Watson, questo non vuol dire che non ne abbia azzeccata neppure una. Nessuno, penso, se la sentirebbe di smentirlo quando dice: “Datemi dodici neonati di dodici paesi diversi e io farò di loro ciò che volete voi.”

Il suo discorso va inteso così, più o meno: “Volete che faccia del nero un pescatore? No problem. Farò di lui un pescatore. Volete che faccia del francese un mafioso? No problem. Farò di lui un mafioso. Volete che faccia dell’italiano un mentecatto? No problem. Farò di lui un mentecatto. Volete che faccia dell’egiziano un dottore? No problem. Farò di lui un dottore. Volete che faccia del russo un musicista? No problem. Farò di lui un musicista. Volete che faccia del cinese un ingegnere? No problem. È quello che farò di lui. Volete che faccia del danese un barbone, un architetto, un filosofo, uno scienziato, un pittore, un idraulico, un astronauta, un fanatico del buddhismo, insomma, quello che volete. Basta che mi diciate quello che volete che io faccia di lui e io lo farò.”

Quando Watson dice questo, non ha in mente chissà cosa, ma l’educazione. Questa è condizionamento, questa ci inchioda nella materia fisica e mentale che pratichiamo e studiamo. È il cervello stesso che si modella su di esse. Se studio ingegneria, a forza di farlo, è ovvio che prima o poi diventerò ingegnere. Forse non un ingegnere come Eiffel, ma diventerò comunque un ingegnere. Costruirò capanne invece di Tour Eiffel. Lo stesso si può dire di chi studia musica. Non diventerà necessariamente un Wagner, ma diventerà, probabilmente, un piccolo compositore, un maestro di musica. Ecco il discorso di Watson.

Come vedi, amico Rossi, non ci sono razze biologiche, ci sono  piuttosto differenze culturali. Queste sì. Queste ci sono eccome! Le diversità culturali bisogna capirle, distinguerle, classificarle, perché alcune di esse sono così inquinate e pestifere che al solo contatto uno potrebbe rimanerci secco!

Dimmi a quale cultura appartieni e ti dirò come ti comporti. Questa potrebbe essere una massima del comportamentismo.

 

Nella prossima parte ci confronteremo con la creatività, con l’arte e col pensiero filosofico. Con quest’ultimo, of course, ci stiamo confrontando sin dall’inizio di questa Lettera, ma qui lo vedremo ancora sotto un altro aspetto. Possa Bogududù assisterci in questa difficilissima impresa!

 

 

 

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