Il Contratto – racconto in 7 post: settima e ultima parte

Maria

Era una ragazza candida, cresciuta per essere moglie, avere figli, prendersi cura della casa, della famiglia. Maria avrebbe potuto essere la donna ideale per un uomo senza ideali.

Dopo alcune volte che era uscito con lei, Max capì che era il perfetto prototipo della donna dei paesi in via di sviluppo. Era culturalmente determinata. Voleva essere per lui non soltanto moglie, ma anche madre sorella cuoca schiava tutto, pronta a seguirlo anche all’inferno. Con lei tutto era così facile. Se Max avesse dovuto scrivere un dialogo fra loro, sarebbe andato più o meno così:

Max      : Maria, che facciamo il prossimo weekend?

Maria   : Quello che vuoi.

Max      : Dove vuoi andare stasera, Maria?

Maria   : Dove desideri tu.

Max      : Maria, non posso uscire con te la prossima domenica.

Maria   : Pazienza. Aspetterò l’altra.

Max      : E se non posso?

Maria   : Non ha importanza. Usciremo quando vuoi tu.

Max      : Il cibo che hai cucinato è disgustoso, Maria!

Maria   : Mi dispiace. Ti preparerò qualcos’altro.

Max      : Maria, vai via da qui, la tua presenza mi dà fastidio.

Maria   : Subito.

Max      : Maria, vieni a lavarmi i piedi.

Maria   : Con acqua calda o fredda?

Max      : Maria, ho ucciso il nostro amico Roberto. Cosa devi dire alla polizia?

Maria   : Non hai bisogno di dirmelo. Non sei stato tu ad ucciderlo!

Max      : Potresti giurarlo?

Maria   : Mille volte davanti a Dio e alla legge.

Max      : Cosa stai facendo Maria?

Maria   : Sto stirando.

Max      : Voglio che tu vada in bagno a lavarti la bocca e poi vieni a succhiarmi l’uccello.

Maria   : Dammi due minuti e arrivo.

Max      : Ho cambiato idea, Maria. Non ho più voglia di te. Vai a farti                    fottere da qualcun altro!

Maria   : No, questo mai. Soltanto da te!

E così via.

Ad un tale tipo di donna, Max preferiva di gran lunga una vita di celibato, a un modello così ripetuto e straripetuto, preferiva la castrazione a vita, a una tale cieca servitù, preferiva la più agguerrita delle femministe.

 La Lesbica

Dopo Maria, Max ebbe un’infelice esperienza con una lesbica. Se ne accorse mentre ballavano in una sala affollata e semibuia. Erano già usciti altre volte insieme e non avevano ancora fatto all’amore. Quella sera si erano ripromessi di farlo, ma prima avevano deciso di andare fuori a divertirsi. Stavano danzando un tango e si tenevano stretti, quando lui iniziò ad avvertire qualcosa che lo speronava tra le cosce. Pensò che fosse la mano della sua compagna che lo eccitava, toccava, accarezzava, pronta ad avvicinarsi al suo sesso. Max sentì il bisogno di fare altrettanto con lei. Indossava una gonna con una cintura elastica in vita. Allora, mentre continuavano a ballare stretti stretti, lui infilò una mano sotto l’indumento e giù fino alla vagina. Non l’avesse mai fatto: si trovò in mano un clitoride grosso come un pene!

Sissy

Incontrò altre ragazze dopo la Lesbica, ma nessuna si avvicinava al suo ideale di donna. L’ultima che riuscì a coinvolgerlo fu Sissy.

Sissy aveva molti amanti e ammiratori, ma nessuno di loro era seriamente interessato a lei, anche se era carina fisicamente. Tutti si servivano del suo corpo quando ne sentivano il bisogno. Era solo un dissetante per i signori dai legami facili. La pagavano anche. Non con soldi, ma con complimenti e lusinghe, e lei non domandava di più, complimenti e lusinghe era tutto ciò che desiderava. Erano questi e null’altro a renderla felice. Vanità e civetteria non avevano limiti per lei. Era ghiotta di complimenti e poco importava quanto falsi o sinceri. Sissy non leggeva queste sfumature della lingua, a lei bastava solo sentire i complimenti per essere felice e contenta. Complimenti complimenti complimenti, e il resto del mondo era privo di senso.

D’altro canto l’annoiava tutto ciò ch’era di qualche utilità nella vita: il lavoro di segretaria l’annoiava, andare in banca l’annoiava, andare al supermercato l’annoiava, cucinare l’annoiava, mangiare l’annoiava, la gente che non le faceva complimenti l’annoiava. Soltanto i complimenti non l’annoiavano mai. La sua era una spietata caccia ai complimenti:

“Sissy, oggi sei straordinaria!”

“Sei sempre la più bella, Sissy!”

“Veramente ineguagliabile, mia cara!”

“Oggi sei perfetta. Neppure un capello fuori posto. Complimenti, mia adorata!”

Dietro ognuno di questi complimenti, si nascondevano le sghignazzate e il cinismo, ma non per lei.

Max, una volta, stava per rivolgerle anche lui il solito complimento ipocrita, quando, e questo fu un lapsus bell’e buono, gli sfuggì:

“Sissy, stasera fai proprio schifo dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Sei brutta anche se sei bella. Sei la bruttezza personificata, altro di te non si può dire!”

Non l’avesse mai detto! Sissy pianse per una settimana. Crudelissimo era stato quell’uomo con lei. Non volle, assolutamente non volle più vederlo.

E Max le fu molto grato, grato anche di chiudere con quella scorribanda di avventure sentimentali che lo stavano trasformando in un cinico, in un sadico, in un mostro, in qualcuno in cui lui non si riconosceva affatto.

Non riuscì a fare più nulla, il suo contratto era scaduto e il ticchettio dell’orologio aveva incominciato ad incalzarlo. Iniziò il conto alla rovescia: i suoi giorni erano ormai contati.

Quella sera, la sera della rottura con Sissy, si era preparato per l’evento, come si prepara una sposa per le nozze. Si era fatto il bagno, poi la barba, poi si era profumato, aveva indossato lo smocking, aveva sprangato porte e finestre, acceso tutte le luci, tolto la spina del telefono e poi caviale toast ostriche aragosta e champagne a volontà. A questa festa del palato si aggiunse anche quella delle orecchie: jazz e clarinetto jazz a volontà, celebrando alla grande la sua ultima sconfitta, quella del contratto e del matrimonio ideale e sforzandosi di pensare, di ricordare a quel detto spagnolo che piaceva tanto a suo padre e che lo faceva sempre ridere goffamente quando lo diceva col suo accento inglese: desnudo nacì, densudo me hallo, ni perdo ni gano.

I suoi genitori

Da quando aveva messo in atto il suo contratto, Max aveva, gradualmente, dimenticato i pochi amici che aveva e trascurato i suoi genitori. Non trovava più tempo per loro.

Coi suoi genitori, poi, una volta che loro erano ritornati a Perth e lui era rimasto a Melbourne, gli incontri si erano fatti sempre più rari, ma mai il loro epistolario. Si scrivevano spesso, si raccontavano, premuravano. La cosa che gli piaceva di più nella loro corrispondenza, era che la lettera era scritta a due mani, la prima parte da sua madre e la seconda da suo padre. Per lui, questo contatto con i suoi, era una forza, uno stimolo che non era mai venuto meno. Max adorava i suoi. Gli erano rimasti sempre vicini, nel cuore.

Se li immaginava felici e contenti. Lei, particolarmente dopo cena, che leggeva i suoi autori russi e lui, tutte le volte che poteva, intento a suonare il clarinetto. Avevano anche imparato a giocare a bowling e si erano iscritti a un club. Si erano comprati una casetta e se la passavano discretamente bene. La casetta, il bowling, il clarinetto, i libri, i loro amici e di questi, gli scriveva la madre, ne avevano tanti.

Erano rimasti a Perth, dopotutto, loro che dovevano stare lì solo per qualche anno!

L’ultima volta che li aveva visti era stato appunto a Perth. Erano andati ad aspettarlo all’aeroporto. Quando lo videro apparire tra gli altri passeggeri, gli erano corsi incontro tenendosi per mano. Gesticolavano. Sorridevano. Sembrava non toccassero terreno mentre correvano. Era così bello vederli correre in quel modo verso di lui, così allegri, felici.

Li abbracciò. Poi il viso della madre si era bagnato di lacrime. Il padre, ad un certo punto, aveva preso un fazzoletto e si era girato dall’altra parte. Max, toccato da quelle perle che scivolavano sul viso dei suoi, li prese a braccetto e tutt’e tre si diressero scherzando e pieni di gioia verso la macchina.

Lo festeggiarono per tutto il tempo che rimase lì. Dopo quella visita, non era più andato a trovarli. Li ricordava, gli piaceva ricordarli mentre gli correvano incontro all’aeroporto di Perth, sorridenti e felici.

I suoi genitori: che fortuna!

 Il cinismo è sempre in agguato

 Gli sembrava ieri, seduto lì in quella camera a St. Kilda, in quell’edificio a tre piani, al suo trentunesimo compleanno, a mordersi le unghie e a meditare sulla sua esistenza. Voleva dare uno scopo a lei, alla sua esistenza, che era venuta al mondo senza scopo. Gliel’aveva dato comunque e si era anche impegnato per realizzarlo. Non ci era riuscito, ma l’esperienza ne era valsa la pena. Da quando aveva firmato il contratto, non si era più sentito come un asteroide sperduto nello spazio.

A esperienza fatta, non era più d’accordo con Ruth. Vivere secondo i richiami della natura non era abbastanza. Ci volevano degli ideali. Per lui, gli ideali volevano dire avere rispetto per la vita, viverla con gusto, con arte, con impegno. La vita è una cosa seria, preziosa, inestimabile. Avere un ideale, darsi uno scopo, un qualcosa che la renda degna di essere vissuta, faceva parte del suo contratto, e giustamente, perché si era ormai convinto di vivere in una società che di ideali non ne aveva più.

Max si riteneva, paradossalmente, un uomo realizzato. Se i fatti non esistono, esistono solo le interpretazioni, come sosteneva Nietzsche, allora questa era la sua di interpretazione.

Quella notte, la notte prima di onorare il suo contratto, fece uno strano sogno. Sognò che andava ad imbucare una lettera, una lettera a Ruth. Non era veramente una lettera, ma un diario. Mentre andava, pensava, tra l’altro, che almeno in una cosa avrebbe avuto la meglio sulla vita: avrebbe deciso lui stesso come viverla e come chiuderla. Questa idea, per quanto strana, gli piaceva, lo rendeva felice, felice per avere deciso lui stesso il suo destino. Poi il sogno era cambiato. Era finito in una città deserta. Non per molto. Bestie feroci e fameliche spuntavano da ogni strada e lo stavano circondando. A questo punto il sogno si era trasformato in un incubo e si era svegliato.

Il giorno dopo, verso l’imbrunire, dopo avere imbucato una lunga lettera indirizzata a Ruth, udì improvvisamente un rombo di veicoli e in seguito dei colpi d’arma da fuoco. Poi vide apparire sulla strada due macchine che si inseguivano a grande velocità e, contemporaneamente, all’interno dei veicoli, uomini che si sparavano a vicenda. Max rimase colpito da quello spettacolo. Non era al cinema, era vero! E mentre guardava meravigliato quelle due vetture inseguirsi e spararsi, un proiettile vagante colpì il bersaglio sbagliato. Sentì prima uno strappo al petto, poi un bruciore, poi capì cos’era successo e infine si rese conto del lurido cinismo che governava la vita: questa, per l’ironia della sorte, voleva privarlo persino di quel suo ultimo desiderio, quello di auto-eliminarsi. Cercò di resistere al dolore, di camminare, di arrivare a casa e di darsi da sé almeno l’ultimo tocco. Mise una mano sulla ferita per bloccare il sangue che sgorgava dal petto. Si fermò per prendere fiato. Intanto le due auto erano sparite e i colpi d’arma da fuoco non si udivano più. Lui continuava a fare sforzi su sforzi per camminare, voleva arrivare a casa, però, via via, i suoi sforzi divennero inutili. Le sue gambe cominciarono a cedere, a piegarsi. Max si morse le labbra, e mentre stava per cadere per terra, delle braccia robuste e decise lo sostennero e lui, ormai privo di forze, vi si afflosciò.

Questo racconto, “Il Contratto”, è stato pubblicato nella collezione di racconti dal titolo “Ribelli non si nasce” nel  2000. Quest’ultima versione l’ho un po’ ritoccata.

Io sono uno scrittore in cerca d’un editore e, fino a quando non lo trovo, mi auto-pubblico. Comunque, il vostro giudizio, amici lettori di Internet, se volete darmelo, mi sarà molto prezioso. Grazie.

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