La favola di Bogududù e la favola di Geova – in 10 post, il terzo

 

 

La favola di Bogududù  (III)

Dopo aver perfezionato e impartito un bell’ammaestramento dottrinale ai miei diffusori e sostenitori, cioè un bel lavaggio del cervello, inizio a mandarli in giro sempre meglio preparati per diffondere la buona novella. I miei divulgatori, e devo dirlo, in realtà, sotto sotto (e questa è la fortuna della mia favola), non sono molto più intelligenti di quelli che devono convertire. Vanno in giro assicurando che, dopo la morte, ci sarà, per chi la desidera, un’altra vita su Marte, una vita vissuta insieme al favoloso dio Bogududù, l’unico vero dio del cielo, della Terra, di Marte e di tutto l’Universo. Bogùdudù è almeno un milione di volte superiore a Geova, Dio, Brahma. In nuce, tutti gli altri dèi, che i miei rivali propongono, sono menzogne e raggiri, pura aria fritta. Solo il dio Bogududù è vero; solo il castello su Marte offre vita e piaceri eterni. Possiamo addirittura mostrare, con un’alzatina del braccio, ai nostri credenti il pianeta Marte. Questi guardano in sù, gli pare di vederlo anche se non lo vedono. Molti lo scambiano per la Luna. Si persuadono. Dicono:

“È proprio così. Il castello su Marte esiste per davvero. L’abbiamo visto coi nostri occhi. Lassù vivremo gioiosi e felici per sempre.”

E così, Rossi, la religione bogududiana è diventata una realtà sociale. La gente ci crede, abbocca, passa parola. Non si sente parlare d’altro che di Bogududù, è ormai sulla bocca di tutti: Bogududù, Bogududù, Bogududù; Bogù, Bogù. Bogù. Il Signore di Marte brilla perché non lo si vede, perché, appunto, sta lassù.

Lassù, Rossi, vuol dire lassù, vuol dire sul cielo e sul cielo ognuno si può inventare e costruire tutto quello che vuole, perché nessuno può mai andare lì, lassù, sul cielo a controllare di persona se è vero o falso. Il cielo è il luogo ideale per i narratori di fiction, di mondi inesistenti, d’invenzioni sciocche e volgari. Infatti, i più grandi raccontatori di favole, di racconti vudù, di nonsenso fantastico, quelli che amano narrare menzogne su mnzogne su menzogne, frottole su frottole su frottole e prendere così in giro i propri simili, quelli che sono rimasti zombi e infantili, adorano questo luogo. Ambientano le loro favole in un vuoto perfetto. Se tu chiedessi, Rossi, a quelli che credono nel paradiso.

“Infatti, dov’è il paradiso?”

Ti risponderebbero tutti, intelligenti e sciocchi:

“In cielo. Dove altro vuole che sia?”

E se poi chiedessi ancora:

“In cielo Dove?”

Nessuno, a questa domanda, saprebbe dirti uno stralcio di parola. E non solo. Il cielo è anche il luogo dove si possono fare soldi a palate e non rischiare nulla, neppure di essere arrestati come venditori di panzane, come impostori, come sbolognatori di aria fritta. Il cielo, che meraviglia!

E così, i miei zelatori, i miei procacciatori di proseliti, si erano trasformati pian piano in fanatici credenti. A tutti quelli che li contestavano e non credevano a Bogùdudù, se potevano gli spaccavano la faccia. Poi, quelli che avevano avuto la faccia spaccata, guarda che roba!, per paura di farsela spaccare di nuovo, ci credevano e ci credevano per davvero. Andavano anche loro in giro per le strade gridando a squarciagola la buona novella, puntando il dito verso Marte, la Luna, le stelle, insomma puntando il dito verso l’alto e dicendo che si poteva vedere la futura dimora, quella in cui un giorno riposeremo tutti felici e contenti per l’eternità.

Tantissimi si erano ormai convinti di tutto quello che dicevano i miei divulgatori. A diecine si convertivano, lasciavano le loro credenze e diventavano bogududiani. Un bogududiano è uno che crede fermamente in Bogududù. Tra le mie schiere aumentano i ricchi. Questi, alla loro morte, lasciano tutto all’organizzazione bogududiana, lo fanno in cambio d’un posto nel castello su Marte. Figurati, Rossi, gli diciamo che li facciamo persino cavalieri, castellani, ambasciatori divini, il braccio destro di Bogududù. Molti di loro credono ciecamente a tutto ciò che gli diciamo.

Personalmente mi presento di fronte al mio pubblico vestito di bianco. È un colore che piace, fa colpo. Predico dall’alto, un posto qualsiasi purché sia alto, da dove troneggio sui miei pecoroni, i miei zombi, i miei creduloni. Non faccio più in tempo ad aprire bocca, che tutto quello che dico, lo credono, lo prendono alla lettera, lo santificano, lo venerano, lo trasmettano.

E si capisce il perché. Nella società in cui viveva questa gente, regnavano l’orrore, lo sfacelo, leggi mostruose, leggi della giungla. La natura dell’uomo non è divina, è bestiale, Rossi, e, in quel periodo, il Medioevo, questa bestialità trovò la sua più alta espressione, trovò il terreno appropriato in cui il vizio e le bugie crescevano esponenzialmente, a tutto spiano. Questo periodo della nostra storia è stato l’apogeo delle frottole divine. Le si poteva raccontare in tutte le salse e gli stolti ci credevano. In questo ambiente crudele e corrotto, la povertà, il disagio, la disperazione la facevano da padroni, quindi le credenze più assurde. Credere, in mezzo a quella ferinità e miseria, era una vera e propria benedizione.

L’unica consolazione per quella gente era nelle parole, nelle promesse, nella fede, nella fiducia d’un domani più roseo. Ai disperati e agli incolti, qualsiasi favola racconti loro, la prendono per vera, ci credono e, se non altro, dà loro sollievo. Tenendo a mente queste condizioni sociali, era ovvio che la favola di Bogududù avrebbe avuto successo e, perciò, che il mio business prosperasse. Infatti, così è stato, infatti, coi soldi che raccoglievo e i doni e i lasciti che ricevevo, compravo scrittori, scultori, pittori, artisti, geni alla Dante, filosofi alla san Tommaso, pittori alla Giotto, compravo ciechi credenti, bigotti. Di più. Compravo geni di ogni genere e professione; compravo anche ingegneri, architetti, lavoratori, guardie del corpo, guardie dei miei averi, che aumentavano di giorno in giorno e dappertutto. Ogni mio capriccio diventava, in quei favolosi tempi, Rossi, realtà.

Il mio esercito di lavoratori costruiva case palazzi castelli manieri; il mio esercito di soldati (mi sono creato anche questo, senza un esercito guerriero, combattente e bene armato e addestrato, come avrei potuto proteggere i miei averi?), quando non combatteva per me, lo mandavo a combattere per quei signori di turno da cui ottenevo grandi favori, aumentando i miei poteri. Con una fava prendevo due piccioni: tenevo occupati i miei soldati e conquistavo fama e ricchezza.

Vivevo ormai in un palazzo di mille camere, disponevo a mio uso e piacere delle donne più belle del paese, di un personale che si addiceva solo a un palazzo come il mio e a un signore come me. Ero potente e riverito e stimato dappertutto. Nessuno mi fermava più. La favola di Bogududù funzionava alla perfezione, grazie a Bogududù.

Nel prossimo posto, La favola di Bogududù (IV)

Tratto da L’Indifferenza divina

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