Per una filosofia perenne ovvero viaggio nell’immortalità fisica e virtuale (2)

2. L’uomo e la terra

Oggi del pianeta terra sappiamo tutto o quasi. Non ci sfugge più niente d’importante di questo sasso che romba nel cielo. Possiamo anche calcolare, se così vogliamo, di quanti atomi e di quanti granellini di sabbia è composto. Sappiamo, inoltre, che non è sicuro passeggiare sui suoi lungomari. I disastri potrebbero arrivare da un momento all’altro e da ogni dove, soprattutto dalle sue stesse viscere, dal suo violento e imprevedibile fare: vulcani in eruzioni, tsunami, spostamento e rovesciamento dei poli, terremoti, tempeste, tifoni, valanghe.

Oggi sappiamo, matematicamente, che potremmo essere spazzati via da un giorno all’altro da un meteorite che entrasse in collisione con la terra. E non solo da uno, ma da una quantità di meteoriti, se non addirittura essere bombardati da un numero tale di corpi celesti così da poter raddoppiare il volume della terra. Se, poi, fossimo raggiunti dalla radiazione d’una stella del vicinato, una supernova o quel che si voglia, saremmo cancellati dal mondo in un batter d’occhio e senza un perché.

E cosa dire del nostro stesso corpo? Cosa sta succedendo nel mio corpo in questo medesimo istante, mentre sto scrivendo questa frase al computer? Non lo so. Non ne ho idea. Deduco che, sentendomi bene, non sta succedendo nulla di preoccupante. La mia però è solo una supposizione. Ho visto gente molto più giovane di me, e con un fisico che sprizzava salute, morire da un momento all’altro. Dal primo all’ultimo respiro, siamo in mano all’imprevedibile, al contingente, ai mille e mille pericoli che ci circondano. Nascere vuol dire vivere col batticuore, vuol dire contemplare l’affascinante spettacolo della vita e della morte.

 

L’uomo e l’universo

Sappiamo com’è nato, come si è sviluppato, quanti anni ha, quanti altri gli restano da vivere; sappiamo come si è formato, abbiamo studiato la materia che lo compone, non abbiamo più dubbi su come si sono formate le stelle, i pianeti, le galassie, i buchi neri. Sì, sappiamo molte cose di questo “signore universo”. Non ci spaventa più. Il suo bau bau, che per millenni ha terrorizzato i bambini, ha perso ora la sua eco e l’ha persa perché gli abbiamo rubato quasi tutti i suoi segreti.

Ma poi, noi, noi esseri umani, di fronte a questa realtà cosmica, dove ci situiamo? Cosa rappresentiamo, noi, in questo immenso caos di mondi e di universi violenti e imponderabili? La scienza, e bisogna dirlo, non ha mai avuto pietà delle nostre fiacche fatiche mentali, dei nostri errori cognitivi, del nostro romanticismo da quattro soldi. Infatti, non smette mai di bastonarci, di umiliarci, di ridimensionarci. Oggi, però, dopo tanti insulti e tanto sudore, qualcosa del nostro universo l’abbiamo imparato. Cosa, allora, cosa rappresentiamo noi in questo sterminato spazio zeppo di buchi senza fondo e di oggetti incontrollabili?

Se guardassimo le cose non da geografi, ma da geologi, quelli che scavano nelle viscere della terra e dell’universo, l’immagine della nostra realtà sarebbe tutt’altro che locale, tranquilla, circoscritta, geocentrica, eliocentrica, galassiocentrica, sarebbe un’immagine cosmocentrica. Quest’immagine ci ridimensiona molto, porta a vederci per quello che realmente siamo: una specie di quark che sbuca senza un perché in un mare di luce e, come per magia, senza un perché sparisce in un mare di tenebre. Ecco a cosa si riduce la nostra apparizione in questo business cosmico, ecco il ruolo del fenomeno che noi chiamiamo vita: schizza dall’immenso e ritorna nell’immenso. Detto diversamente, noi ci troviamo tra due nulla: il nulla da cui veniamo e il nulla in cui andremo incontro. Il loro inizio, la loro durata e la loro fine o infinità, non ci è permesso di conoscerli.

La nostra stessa terra, nello sconfinato spazio in cui si trova, è solo un granello di sabbia in cui l’uomo, paragonato alla terra, non si vede neppure al microscopio. È un fantasma, una polvere invisibile, un microbo spettrale e ballerino. La sola Via Lattea è composta da un infinito numero di stelle e di altrettanti pianeti che girano loro attorno. Nel cosmo ci sono miliardi e miliardi di galassie che ospitano altri miliardi e miliardi di stelle. Di fronte a questo gigantesco ammasso di materia, di fronte a questo indescrivibile pandemonio, che ruolo può avere l’uomo?

Noi, noi esseri umani, abbiamo veramente un’identità nel mondo in cui viviamo? Perché, se l’abbiamo, allora è un’identità pari a zero, anzi, è uno zero, uno zero assoluto. Saltiamo un milione di vicende cosmiche e domande e arriviamo subito al sole. Con la sua morte, di noi non resterà nulla, neppure una traccia. E non solo di noi. Non resterà neppure una traccia del sole stesso. Con la sua morte spariranno la terra e gli altri pianeti – Saturno, Giove, Venere ecc. Di più. La nostra stessa galassia, la bella galassia a spirale, la Via Lattea, fra un paio di milioni di anni, sarà raggiunta e fagocitata dalla mastodontica galassia Andromeda che la sta tallonando ormai da un pezzo. Non ha scampo la Via Lattea. Il suo destino è segnato. Non ne resterà traccia. E cosa succederà, e la domanda è d’obbligo a questo punto, al nostro intero universo? Anch’esso, non meno di noi, si disintegrerà e sparirà nel nulla, per poi, forse, riapparire di nuovo sotto una nuova forma. E via di seguito, ad infinitum.

A ben pensare, bisogna aver coraggio tutte le volte che diciamo “io”, “noi”, “il mio paese”, “la nostra terra”. Insomma, cosa siamo, cosa rappresentiamo “noi” in tutto questo traffico? Una muffa, disse una volta Schopenhauer. Neppure questa, diremmo noi, e non lo diremmo per essere a tutti i costi più bravi o più pessimisti di lui. Affatto. Puntualizziamo solo e con avvedutezza la nostra realtà. Siamo niente di niente: in termini cosmici, siamo roba invisibile, una fiction, sogni dei sogni, puro miraggio, neppure dei simulacri. Anche la nostra soggettività è sogno. Solo uccelli che schizzano nel cielo per un istante e poi di nuovo inghiottiti dalle tenebre. E questa non è interpretazione, è la nostra realtà, una realtà tragica e senza un perché.

 

L’uomo e il mistero

Cosa significa questo? Significa che il mistero, per come lo si concepiva, non c’è più, è morto. E non solo. L’anima del mondo non c’è più, è morta; gli dèi non ci sono più, sono morti; l’altro mondo dei credenti, non c’è più, è morto; Dio non c’è più, è morto. Viviamo in un mondo trasparente. Possiamo finalmente decidere cosa fare di noi stessi e della nostra vita senza dover dare più conto a nessuno.

Cosa dici, lettore? Cosa? Ah sì, mi pare di aver capito. Cioè andare oltre il mistero, oltre alla causa delle cause, giusto? Ma poi, amico mio, esiste la causa delle cause? Ne siamo sicuri? È vero, per ogni effetto dovrebbe esserci una causa, ma potrebbe anche esistere la “causa” senza effetto. Perché ci dovrebbe essere a tutti i costi un principio anonimo, neutro, divino? Perché, invece, niente di niente? E comunque ci potrebbe anche essere un processo che si genera da sé, un semplice processo che va dall’inanimato all’animato, dal materiale al vitale e da questo allo spirituale e dalla morte alla vita e dalla vita alla morte, un processo, come dire, spontaneo, che si autogenera all’infinito, insito nella materia, una specie di quid dove c’è tutto incluso nel prezzo, anche il servizio, e che non ha nulla a che vedere con tutte le nostre fantasie, i nostri deliri, paure e voglia d’immortalità. Insomma, un processo e basta.

Naturalmente, nessuno ha una scienza definitiva in mano, nessuno si atteggia a profeta della verità ultima, nessuno, eccetto i visionari, gli infallibili, i folli, coloro che pretendono di saper tutto, perché, in realtà, rimangono ancora tante cose da scoprire e tanti fenomeni da capire, ma li scopriremo e li capiremo strada facendo, come abbiamo fatto fino adesso, è solo questione di tempo.

Se non ci auto-distruggiamo o veniamo distrutti prima, presto ci aspetta un universo di tedio, e questo perché, una volta strappato l’ultimo segreto al nostro bel cosmo, una volta che conosceremo tutto di lui, per noi, esso, sarà bell’e finito! Allora, perso definitivamente il giocattolo del “mistero” con cui ci siamo trastullati per millenni, finiremo tutti, inevitabilmente e sicuramente, in un mare di noia. Se le cose andranno così, allora il nostro futuro sarà un futuro da cosmic boredom!


L’uomo e il senso

Se chiedessi ad un australiano se la vita abbia o non abbia un senso, mi risponderebbe, 90 su cento, che per alcuni ha un senso e per altri no. Allora non resterebbe che chiedermi chi sono coloro per cui la vita ha un senso e chi sono coloro per cui la vita non ha un senso. Tra i primi troverei gli ottimisti, tra i secondi i pessimisti. A questo punto, dovrei farmi un’altra domanda: questi signori, gli ottimisti e i pessimisti, a quale categoria di pensatori appartengono? La risposta questa volta è facile: a quelli che interpretano le cose e il mondo partendo dalla loro soggettività. Questo però a me non basta. Oltre ai pessimisti e agli ottimisti, ci sono anche i realisti e noi, lettore, ci affianchiamo a questi ultimi.

Per un realista, allora, la vita ha o non ha un senso? Intanto c’è da dire che la vita ha un senso a posteriori, mai a priori. Prima si nasce, si schizza fuori dal nulla e poi, solo poi, si costruisce, ci si dà, eventualmente, un senso, una direzione, un punto di riferimento. Le tartarughine, ad esempio, una volta sgusciate dall’uovo corrono verso il mare; i piccoli degli gnu, appena nati, si tirano su e, a sforzi e spinte, iniziano a seguire la madre; i girasoli si voltano verso il sole. Questo senso di orientamento lo dà la natura. Un altro tipo di senso è quello che diamo noi alla vita. Questo, o glielo diamo noi o nessun’altro. La vita può nascere con una direzione, ma non nasce con un senso. Questo è un nostro prodotto. Siamo noi che condiamo il linguaggio di senso, ma in sé il linguaggio è senza senso, è flatus vocis, alterazioni fisiche delle corde vocali e vibrazioni atmosferiche, diceva il filosofo medievale Roscellino.

Di più. Il senso che noi diamo alle cose, è un senso interessato. L’ululato del lupo ha senso per i lupi e per tutti gli altri animali che li temono. Altro senso il suo ululato non ha. La parola “albero”, in sé, non ha senso, può averlo solo per me, perché mi dà dei frutti, legno, riparo, ombra. Il senso che noi diamo alle cose, noi esseri umani, è un senso di convenienza. Il topo ha un senso per il gatto, il sole ha un senso per la vita sulla terra, il pesce piccolo ha un senso per il pesce grande, il maschio per la femmina e viceversa. Questo è un senso, se così vogliamo chiamarlo, istintivo, naturale, quindi causale e casuale. È chiaro che un operaio ha senso per il suo padrone: senza di lui, il padrone, come resterebbe padrone? È chiaro che i creduloni hanno un senso per i maghi: senza i creduloni chi li manterrebbe in vita?

Per il prete ha senso vendere la sua menzogna a quelli che credono alla sua menzogna. Per questi ultimi, i credenti, ha senso credere nella menzogna che vendono i preti. Come dire, Bogududù li fa e Bogududù li accoppia.

Non c’è un nostro atto gratuito, diceva Kant, dietro tutto quello che facciamo si nasconde lo zampino dell’interesse ed è questo che noi abbiamo trasformato in senso. Il senso è interesse e l’interesse è senso. Ecco dove vanno a finire tutte le morali, le etiche, gli altruismi e le democrazie.

Il nostro, se ci riflettiamo un po’, è un paesaggio opaco. Gli umani, e bisogna pur dirlo, non vogliono proprio capirle certe cose. Eppure è tutto così semplice da capire: le cose nascono senza senso. L’infantilismo dovrebbe avere un percorso e un tempo e poi basta. Ma non è così e per un milione di ragioni. L’istinto egoista e l’interesse dominano il teatro umano. Nessun atto è autentico, privo di scopo, regalato. Dietro ogni nostro fare si nascondono il tornaconto, il guadagno, l’utile e noi non facciamo nulla per sfuggirli. È meglio riconoscere questa nostra debolezza e limitatezza connaturate per poter prendere le giuste distanze tutte le volte che possiamo. Fare indietreggiare la bestia e l’ignoranza in noi e fare avanzare il disinteresse e la conoscenza sarebbe un bel passo in avanti per gli esseri umani.

Il senso che noi diamo alla vita, è un senso limitato, soggettivo, del qui e ora, perché quale altro senso potrebbe avere la vita dopotutto quello che abbiamo detto? In un mondo così fatto, se non accarezziamo fantasie e illusioni, allora l’io, il me, il sono, il self, il noi, il penso dunque sono, tutti fiction, velo di Maya, abbagli, miraggi e spettri. La nostra realtà è fatta di fuochi di artificio. Non abbiamo scelta. Vivere è programmare la propria esistenza in un mondo di agguati e di pericoli; è costruire la propria dimora non solo sull’abisso, ma anche nel nulla. Ci sono delle volte, quando penso a tutto questo, che faccio fatica, molta fatica a prendermi sul serio. Ho l’impressione che sia tutto uno scherzo o semplicemente che io stia sognando. Non mi pare vero, ecco.

Dobbiamo riscrivere il senso della vita in un contesto evoluzionistico e cosmico. Il geocentrismo, l’eliocentrismo, il centrismo della Via Lattea, sono nulla se li confrontiamo con il cosmocentrismo, vale a dire con miliardi di galassie e miliardi di stelle con miliardi di pianeti che girano loro attorno. Che senso può avere la vita di un essere umano in un tale ammasso di materia in perpetua fusione e trasformazione? Può la vita avere un senso in questa prospettiva cosmica? Il senso che noi diamo alle cose, alla vita, non è altro che una fabbricazione della mente. Senza una nostra abilità di trascendere le cose e di trascenderci, il senso non esisterebbe. Per gli animali, per quello che ne sappiamo, il senso, infatti, non esiste. Hanno una direzione ma non un senso. Il senso è un’invenzione degli uomini come lo sono dio, il nirvana, l’ade. La vita ha tutt’al più un senso locale, limitato, circoscritto, qui e ora.

Leggi cieche e casuali fanno sì che ogni cosa che nasce nell’universo abbia un destino che dipende da un milione di eventi. Ma c’è una legge, però, una legge a cui nessuno può sottrarsi: quella della finitudine e la finitudine è sempre prematura e indesiderata. L’universo, uno tra i multiversi, è un fenomeno che non si auto-realizza mai. In esso, nascita e distruzione si mescolano in un eterno abbraccio. Noi siamo i figli di questo caos infernale, figli di un prodotto che muore, ma che, nei fatti, non muore mai!

In questo mondo così fatto, allora, ha ancora senso parlare di senso? La nostra risposta è positiva, è sì. Perciò, alla domanda se la vita ha o non ha un senso, rispondiamo: “Sì, ce l’ha, ma solo quello che gli diamo noi in primissima persona.”

 

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