Fiori di sierra, romanzo, i fantasmi della fanciullezza, parte prima (9)

Aspettava da mezz’ora e non c’era nessun altro cliente nella sala. Stupefatto, guardava quegli impiegati che, con camicie bianche e cravatte nere, si agitavano, si muovevano da un posto all’altro con in mano carte che prendevano dalle loro scrivanie per riportarle di nuovo dove le avevano prese poco prima, senza neppure guardarle; si giravano intorno l’un l’altro, si esaminavano, si scambiavano occhiate e sorrisetti maliziosi mugolando qualche parola tra i denti, mentre qualcuno, di quando in quando, si degnava di dare un’occhiata a quello sperduto tipo che continuava ad osservarli con tanta meraviglia, aspettando che qualcuno si decidesse ad occuparsi di lui.

Finalmente, vide due di quei tipi parlare insieme e, poi, uno di loro, quello tozzo che assomigliava più a un gorilla che a un essere umano, si era avvicinato allo sportello e aveva chiamato con voce stridula:

“Signor D’Alessio!”

“Si,” rispose Nicolò avviandosi verso il banco.

“Lei è il signor D’Alessio?” fece il piccolo gorilla guardandolo con quei suoi occhi cavernosi e luccicanti.

“Proprio io,” ripeté Nicolò.

“Ha un documento?”

“Eccolo,” e gli porse il passaporto.

L’altro lo controllò, sbirciò una volta ancora il suo cliente, disse: “Abbiamo conferma dalla centrale di Roma che i suoi soldi sono arrivati e che saranno qui fra qualche giorno. Se ha bisogno di ritirarne adesso, cercheremo di accontentarla.”

Dopo aver ritirato i soldi, Nicolò andò da un notaio, s’informò su alcune pratiche, diede incarico per altre e in seguito riprese la strada per Calvario: la sua vecchia casa, finita e pronta, l’aspettava.

Quella dimora aveva una strana storia. Guardandola da lontano, con quel suo tetto di tegole di cotto arancione, porta e finestre verdi, l’alta canna fumaria, i muri di pietra liscia che brillavano al sole, costruita sotto un picco del monte Agave così sporgente che pareva le cascasse sopra da un momento all’altro, aveva un aspetto fiabesco e insolito.

Si diceva che la prima cosa che facevano i calvaresi, quando mettevano piede fuori il mattino, era di alzare gli occhi verso quel picco per vedere se fosse ancora là, tanto era radicata l’idea che potesse cadere in qualsiasi momento. Però, il picco, minaccioso e immobile, era là, sempre là.

Per quello che riguardava la casa, nessuno sapeva chi l’avesse costruita. “È stata sempre lì,” dicevano i più anziani. Poi, quando era morto il vecchio che l’abitava, era rimasta vuota per alcuni anni, fino a quando non erano arrivati i D’Alessio.

Venivano da un paese circostante e chissà, forse erano andati ad abitare lì per il gusto del pericolo o per disperazione o forse perché avevano parenti a Calvario: la ragione era rimasta un mistero.

Nicolello era stato l’unico della famiglia a nascere tra quei muri e sotto quel picco. Non ci aveva mai fatto caso né aveva avuto mai paura e questo fino a quando la gente non si era messa a riempirgli la testa di dicerie, a dirgli che prima o poi sarebbe rimasto seppellito lì sotto. Queste storie lo spaventarono. Iniziò così il suo terrore, specialmente quando tuonava e faceva brutto tempo. In quei momenti s’immaginava il peggio, era sempre in allerta e, se un temporale arrivava di notte, non chiudeva occhio.

Poi, via via che cresceva, e dopo aver scalato lui stesso più volte quel picco, si rese conto che era tanto solido lì dov’era quanto il granito. Scoprì anche che di quella strana abitazione in cui era nato non si poteva dire di meno: oltre a essere molto solida, era anche l’unica a Calvario ad avere una storia.

Luogo di incubi e di sogni, gli piaceva il camino, particolarmente durante l’inverno quando non c’era vento e il cielo era coperto e piovigginava. Dai campi dove andava a pascolare le pecore, vedeva il fumo salire su su per la montagna raggiungendo le nuvole e confondendosi tra di esse. Quella vista gli sembrava irreale, lo faceva sognare luoghi stranieri e paesaggi fantastici.

Nei pressi non c’erano altre abitazioni. La più vicina, quella del Dritto, distava più di mezzo chilometro. Davanti alla casa c’era uno spiazzo, poi la strada, la quercia, fichi d’India e alberi di olivo sulle sponde del torrente dal fondo ghiaioso che serpeggiava intorno all’Agave per poi perdersi nella campagna piena di ondulazioni e colline.

Nicolò, più pensava alla casa in cui era nato, più se la sentiva familiare e vicina.

Quando Amedeo aveva parlato del restauro della casa dei D’Alessio a mastro Nicodemo, per poco a questi non era venuto un colpo. Lavorare in quel luogo, accidenti! Solo che il vecchio muratore non poteva dire di no, perché se la gente avesse saputo che non aveva voluto ripristinarla per paura di quel maledetto sasso sporgente, l’avrebbe messo in ridicolo e chiamato “cacasotto” per il resto della sua vita. Stando così le cose, mastro Nicodemo si era fatto coraggio, aveva sfidato l’opera del demonio e iniziato e finito il lavoro in un tempo record.

“Compare Amedeo!” chiamò mentre stava aiutando gli altri due operai a caricare su un camioncino gli ultimi attrezzi rimasti.

“Che c’è mastro Nicodemo?” rispose lui smettendo di sistemare delle cose in cucina e avvicinandosi al vecchio muratore.

“Non pensate che vostro cugino abbia degli strani gusti?”

“E cioè?”

“Riparo e costruisco case da più di quarant’anni, non tutte sotto questa maledizione, per grazia di Dio, e mai uno, prima di vostro cugino, mi ha chiesto di mettere una moquette nella camera da letto. Cemento liscio, mattonella, marmo, ma mai moquette!”

“Può darsi che Nicolò abbia sviluppato strani gusti,” ammise Amedeo. “Ha vissuto per molti anni in paesi stranieri.”

“Ho fatto la casa a tanti nostri paesani che anch’essi erano stati via e nessuno, credetemi, nessuno mi ha mai chiesto una moquette!”

Mentre i due uomini stavano parlando di Nicolò, arrivò una macchina. Amedeo si affacciò alla finestra per vedere chi era e vide il cugino scendere da una Lancia nuova di zecca. Gli ‘strani gusti’ del cugino non erano poi tanto malvagi!

“Ti piace?” gli chiese.

“Molto,” fece Amedeo.

“Sono contento,” disse Nicolò entrando e dirigendosi verso mastro Nicodemo.

“Salve, signor D’Alessio!” fece questi come lo vide.

“Allora, l’abbiamo messa a posto questa vecchia baracca?” chiese lui stringendogli la mano.

“A postissimo”, rispose mastro Nicodemo. “Ci abbiamo messo persino la moquette nella camera da letto, proprio come vossignoria ci aveva ordinato!”

“Benissimo!” fece lui registrando quel ‘vossignoria’.

Non appena Amedeo li raggiunse, insieme diedero un’occhiata a ciò ch’era stato fatto. Non che ci fosse molto da vedere: tre camerette, una grande cucina e un gabinetto, nuovo. Il porcile, l’ovile e quella specie di caverna scavata nella parete della montagna dove una volta si tenevano le galline, li aveva fatti soltanto pulire. L’arredamento era già lì: armadio, scrivania, letto, sedie, specchio, divano e altre cose. Nella cucina, oltre al frigorifero, la stufa a gas e a tutta una batteria di stoviglie e casseruole, c’era anche il lavello con il rubinetto! Non c’erano libri, e una casa senza libri è come un corpo senza testa.

“Bene,” fece Nicolò dopo aver ispezionato i lavori, “sembra che tutto sia in ordine. Stamattina sono andato in banca e ho ritirato del denaro. Regolerò il conto con Amedeo in giornata e poi ve la vedrete tra voi.”

Mastro Nicodemo, felicissimo di aver finito con quella ‘maledizione’, come lui chiamava quella casa quand’era insieme ai suoi compagni, disse che un altro impegno lo aspettava e filò. Non appena fu sullo spiazzo si mise addirittura a correre come se quel picco stesse per cadergli sulla testa proprio in quel momento.

Nicolò, che l’aveva seguito con lo sguardo, rise quando lo vide guardare in su e poi correre. Pensò che l’ignoranza andava combattuta con la scienza.

“Dormirai qui stasera?” chiese Amedeo.

“Certo, qui. Altrimenti dove vuoi che dorma?”

“Non so. Potresti ritornare a dormire dove hai dormito finora.”

“Naturalmente potrei!” disse Nicolò punto da quel ‘dove hai dormito finora’. “Michele, nel caso non ti fosse chiaro, oltre ad essere un mio carissimo amico, è anche una persona simpaticissima e rispettosissima.”

“Indubbiamente,” fece Amedeo cercando di correggere un malinteso. “Io non stavo insinuando niente. Ho solo domandato se stasera dormivi qui o no.”

Nicolò lo guardò stizzoso, si contenne, disse cambiando discorso: “Sai che si sposerà con Maria Maddalena?”

“Con chi?”

“Con Maria Maddalena, quella che uccise Vincenzo.”

“Non è possibile! E poi non è ancora in carcere?”

“È uscita in questi giorni. Quando sono andato a trovarla, ho incontrato anche suo figlio Vincenzo. È tutto suo padre.”

Come Nicolò fiatò ‘È tutto suo padre’, Amedeo sussultò e ricordò con una stretta al cuore quel lontano evento.

Conosceva Maria Maddalena, la vedeva col padre quando venivano a fare visita a una loro parente che abitava vicino a casa sua e a quella di Vincenzo. La ragazza aveva capelli neri lunghi e un corpo in rapido sviluppo. Non si comportava come le altre ragazze della sua età, soprattutto dopo che aveva perso la madre. Quella perdita l’aveva fatta crescere in fretta. Quand’era col padre, si atteggiava addirittura a donna ed aveva un aspetto molto serio.

Quando poi Amedeo seppe che aveva ucciso Vincenzo con un colpo di rivoltella, ne fu fortemente scosso. Vincenzo, Vincenzo morto ammazzato! Amedeo non aveva mai pensato prima alla morte, mai pensato che avrebbe potuto essere ucciso anche lui! La cosa non si fermò lì.

Nel pomeriggio di quel fatidico giorno, vide trasportare il corpo senza vita di Vincenzo, col petto squarciato dal proiettile, gli abiti inzuppati di sangue e le braccia penzolanti. Quella vista fu, per Amedeo, il colpo di grazia. Ne rimase fortemente turbato.

Quella notte non dormì. Il giorno seguente spiò il feretro: non poté mai più dimenticarlo. Uno shock! Svenne, e quando si riprese, rimase per giorni terrorizzato, rifiutandosi di andare a scuola e di dormire da solo nella sua camera. I genitori avevano dovuto spostare il suo letto nella loro, ma lui continuava ad avere degli incubi e a sentirsi inseguito da quella cassa da morto sempre pronta a chiuderlo dentro. Poi si calmò, però quella bara Amedeo non la dimenticò mai più.

E adesso, come Nicolò aveva menzionato il nome di Vincenzo, rivide e rivisse di nuovo quel periodo di terrore della sua vita. Era diventato pallido, nervoso.

“Sì, ricordo eccome!” disse e cambiò discorso dicendo “Lucia e io abbiamo cercato di procurarti tutto il necessario. Se c’è qualcosa a cui non abbiamo pensato, non hai che da dirlo.”

“Non so come ringraziarvi, come contraccambiare quello che voi fate per me.”

“Venendo a trovarci più spesso.”

“Verrò, verrò, stai tranquillo.”

Poi:

“Perché sei ritornato, Nicolò?” chiese Amedeo deciso. Voleva fargli questa domanda molto prima, ma, per una ragione o per un’altra, non l’aveva fatto. Ora se l’era trovata in bocca in modo semplice e naturale. “Perché sei ritornato?” ripeté.

“Sicuramente non per finire qui la mia vita,” rispose lui un po’ sorpreso da quella domanda. “Sono ritornato perché ho qualcosa da sbrigare.”

“Che cos’hai detto?”

“Niente. Roba personale.”

“Che roba?”

“Nulla d’importante.”

“Cioè?”

“Dimentica quello che ho detto.”

“Tu non me la racconti giusta,” attaccò Amedeo.

“Non c’è proprio nulla da raccontare,” rispose lui.

“Invece sì!” fece Amedeo illuminandosi. “Potresti raccontarmi della tua vita all’estero.”

“Cosa?” disse Nicolò colto di nuovo in contropiede.

“Non so nulla di quello che hai fatto da quando hai lasciato Calvario. Potresti parlarmene.”

Amedeo cercò di ricordare suo cugino prima che partisse. Di quell’immagine ora non restava più nulla, Nicolò era molto cambiato. Diego, un tipo di Calvario, era andato via ed era ritornato solo da alcuni mesi ma, nonostante tutti quegli anni trascorsi fuori da Calvario, non era mutato affatto. Parlava ancora il dialetto, giocava a carte come prima e si ubriacava anche di più. Aveva ripreso a fare la stessa vita che faceva prima di partire. E non soltanto Diego. Aveva visto molti altri ritornare nel loro bozzolo e ricominciare la vecchia esistenza come se niente fosse successo loro, malgrado tutti gli anni che erano stati via. Certo, in un primo tempo fumavano sigarette straniere, indossavano abiti stranieri, sfoggiavano modi stranieri quando uno andava a visitarli e non si facevano vedere in giro per qualche settimana. Poi tutto riprendeva come prima: fumavano trinciato, lavoravano nei campi, bisticciavano coi familiari, portavano i pantaloni rattoppati. Invece, lui, Nicolò, pensava Amedeo, era così diverso che neppure lontanamente rassomigliava più a loro. E quella frase: “Ho qualcosa da sbrigare”. Cos’aveva da sbrigare?

“Parlarti della mia vita all’estero?”

“Sì.”

“Magnifica idea, ma come ti è venuta in mente?”

“Così.”

“Sappi però che non riuscirei a raccontarti la mia vita all’estero in due parole.”

“In quattro, otto, sedici. Tutte quelle che vuoi.”

“Vuoi veramente che te ne parli?”

“Sì,” fece Amedeo sempre più deciso e convinto.

“La tua, dopotutto, non è per nulla una cattiva idea,” disse Nicolò riflettendoci. “D’accordo. Ci proverò. Tanto fino alla fine dell’anno, tempo ce n’è,” e subito dopo aver detto quest’ultima frase, si pentì.

“Che intendi dire? Che poi te ne andrai?”

“Sì, qualcosa del genere.”

“Tu sei pazzo!” l’attaccò di nuovo Amedeo che non si lasciava per niente convincere dal modo strambo di fare e di dire del cugino. “Tu non sei cambiato affatto in certe cose. Anzi, ancora più matto di prima. Hai detto che sei ritornato per restare. Che cos’è adesso tutto questo? Perché hai fatto riparare la casa se volevi andartene di nuovo tanto in fretta? E poi cos’è che hai da sbrigare qui, tu? È meglio che ti spieghi, Nicolò!”

“Te l’ho detto, non c’è un’acca da spiegare,” fece lui contrariato per il verso che la conversazione aveva preso.

“E invece sì!” insistette il cugino.

“Amedeo, sii gentile,” disse Nicolò, “e lascia perdere.” E aggiunse: “Perché non vieni a trovarmi domani sera, così ti parlerò della mia vita all’estero. È quello che vuoi, no?”

“Non vedo l’ora!” disse l’altro mollando la presa e avviandosi verso la Cinquecento. Prima di entrare in macchina urlò:

“A Lucia non farà male se cenerà sola coi bambini per qualche sera. Io mangerò a casa D’Alessio. Non preoccuparti per il cibo, provvederò io. A proposito, i conti con mastro Nicodemo li salderemo un’altra volta. Ciao!”

“Ciao!” fece Nicolò pensieroso.

 

 

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