Fiori di sierra, romanzo, la vita all’estero, parte seconda (4)

IV

Quella mattina Nicolò si alzò presto. Si lavò e si rase con acqua fredda. Il dopobarba sapeva di pino, ne aspirò l’odore, se ne buttò sul viso in abbondanza. S’accorse che aveva le occhiaie. Scorse una sottile grinza vicino alla palpebra inferiore. La sfiorò col dito, fece un ghigno: era la materia marcia di Gina che affiorava!

Si preparò il caffè. Lo bevve. E, tra un pensiero e l’altro, gli venne in mente che le ragazze australiane sarebbero arrivate a Calvario fra qualche giorno. Doveva andare a Stìdero a comprare della roba.

Stava per salire in macchina quando scorse un uomo venire verso di lui. All’inizio non capì chi fosse, poi, mentre si avvicinava, lo riconobbe. Era il Dritto. Amedeo e Lucia gli avevano accennato qualcosa riguardo a questo individuo, ma lui lo ricordava bene. Ora, come lo rivide, dimenticò quello che gli frullava in testa e fu subito percorso da un brivido. Rivide una sfilza di immagini. Non riusciva ancora a crederci. Lei era una bambina, lui, lo sposo, quasi un vecchio! Come aveva potuto, lui, il Dritto, dare sua figlia in sposa a quell’essere?

Nicolò rivide la chiesa, il prete, il banchetto, quella ragazzina ballare goffamente con quel tristo individuo, suo marito; poi vide il letto, poi il mattino seguente le lenzuola macchiate di sangue appese fuori che confermavano la verginità della sposa, poi il gonfiarsi della sua pancia, poi quella bambina camminare per la strada portando un’altra bambina nella sua pancia da bambina, poi la sua morte durante il parto.

Cos’era tutto questo? Era ignoranza, violenza, omicidio, nonsenso culturale, una presa in giro mefistofelica? Oppure erano vecchie usanze, vecchi costumi, le sagge tradizioni di un popolo millenario?

Nicolò, senza che lo volesse, si sentì ghermito da una brigata di ricordi. Era totalmente disarmato, non sapeva come difendersi di fronte ad essi. Pensò che le impressioni profonde dell’infanzia non l’avrebbero più lasciato. Tutto, lì a Calvario, non faceva altro che assalirlo, sbattergli davanti agli occhi ciò che lui per moltissimi anni aveva represso. Il suo passato non era fatto a compartimenti stagni, non lo si poteva incasellare, chiudere, dimenticare; il suo passato era la fonte del suo presente e questo gli faceva pensare che c’erano cose su cui non aveva controllo e che, nei momenti più inaspettati, esplodevano in lui come lampi a ciel sereno.

“Mi sbaglio o questo è il signor Nicolò D’Alessio?” domandò il Dritto in dialetto quando gli fu vicino.

“No, non vi sbagliate. Sono io,” fece lui scongiurando ancora fantasmi del passato.

“Che signore vi siete fatto!” berciò di nuovo il Dritto quando gli arrivò quasi addosso tendendogli la mano. Nicolò non poté fare a meno di stringergliela. L’altro continuò: “La sua povera madre, se fosse in vita, sarebbe felicissima di vederla. D’altro canto non si può vivere per sempre.”

“Purtroppo.”

“Sono contento di sapere che sia venuto, signor D’Alessio, a sistemarsi di nuovo da noi. Io lo dico sempre che dove uno è nato lì deve morire.”

Nicolò gli lanciò un’occhiata; non aprì bocca.

“Che bella macchina!” esclamò il Dritto adocchiando l’automobile.

Nicolò lo guardò di nuovo e di nuovo tacque.

“Si vede che vi siete fatto ricco, che avete fatto fortuna. Beato lei. Noi che restiamo qui, per noi non c’è modo di fare fortuna. Quello che ci salva è il nostro onore.”

No comment.

“Signor D’Alessio, non voglio prenderle molto tempo. So che lei è tanto occupato. Volevo solamente farle sapere che, adesso che è venuto a vivere di nuovo qui da noi, ci farebbe piacere se onorasse ‘la nostra famiglia’. Me lo faccia sapere quando le fa comodo, così facciamo questa cosa.”

A Nicolò, sentendo quella frase, ‘la nostra famiglia’, era venuto un brivido. Tremava già tutto. Riuscì appena a spiccicare: “Ne riparlaremo!” e, chiudendosi in macchina, partì come un razzo sollevando una nuvola di polvere in cui il Dritto rimase immerso.

“Bloody hell!” gridava mentre accelerava sulla strada per Stìdero. “I can’t believe it. I just can’t believe such creatures still exist!” 1

Fermò l’auto dinanzi al bar della Repubblica, in corso Cavour. Scese, andò dritto dritto al banco, ordinò un cognac e un caffè. Tracannò il primo d’un solo colpo e ne ordinò un altro. I due cognac e il gusto aromatico del caffè, gli ridettero di nuovo il sapore della vita, ma non calmarono il suo stato d’animo ribelle.

Un uomo entrò e si avvicinò al banco.

“Caffè come al solito, avvocato?” disse il barman.

“Dato che lo sai,” fece l’avvocato, “perché me lo chiedi ogni volta?”

“Per dire qualcosa, avvocato, unicamente per dire qualcosa,” disse lui piazzandogli il caffè davanti.

“Lei non è di Stìdero o sbaglio?” domandò l’avvocato a Nicolò dopo averlo squadrato.

“Sì, sbaglia, perché io sono proprio di Stìdero!” rispose lui con un filino d’incazzatura nella voce.

“Non intendevo essere curioso sgarbatamente,” fece subito l’altro avvertendo il polso di Nicolò. “Non l’ho mai vista in paese prima d’ora, ecco tutto.”

“È possibile,” disse lui più pacato. “Ho lasciato Stìdero, o meglio, Calvario, quand’ero un ragazzo. Sono appena ritornato.”

“Questo spiega tutto,” disse l’avvocato lasciando trapelare un pizzico di disprezzo per il cafone che aveva davanti e, dopo avere mandato giù le ultime gocce di caffè, pagò e uscì.

Nicolò, sbrigate le cose per le quali era andato in paese, decise di fare due passi sul Lungomare. Si sentiva ancora agitato. Camminava con le mani in tasca, serrava i pugni. Era furioso, nauseato e non smetteva di ripetersi: “It can’t be true. I don’t believe it.” 2

Paradossale questa sua reazione contro il Dritto. In fondo in fondo egli sapeva che la gente, lì, non cambiava. E qui il suo amico Michele aveva ragione. Però, pensava di essere cambiato lui, dato ch’era mancato da quel luogo per molto tempo. Si illudeva. Non era così. In realtà, Nicolò, in certe cose, non era cambiato affatto.

Non è che non capisse la loro mentalità, anzi la capiva benissimo, non riusciva più ad accettarla, giustificarla. Il punto era, però, che  continuava  ad  avere  sentimenti  e pensieri calvaresi e, per certi

versi, a comportarsi come si comportavano loro. Certo, non quand’era all’estero, ma qui sì, e lo sapeva, e sapeva anche che quand’era  con  un  calvarese,  non  avrebbe mai potuto agire diversamente. Tutto quello che aveva fatto mentre era stato via, l’aveva cambiato solo intellettualmente, culturalmente, ma non sentimentalmente, psicologicamente. Nel suo corpo scorreva sangue calvarese e il suo sangue, alla nascita, si era plasmato con l’alito della vita di quel luogo. Questo, come l’imprinting, era fatale, determinante. Proprio come quei giovani stideresi che andavano a studiare nella capitale e che, quando ritornavano a casa, si comportavano come se non fossero mai stati via, così lui.

Nicolò detestava questa schiavitù della zolla natale, ma non poteva farci nulla. Solo andandosene via avrebbe potuto sradicare la forza e la prepotenza delle radici. Altrimenti, una volta calvarese, sempre calvarese!

Nel pomeriggio di quel giorno andò a farsi una camminata in campagna. Si sentiva meglio. Lungo un viottolo stretto, un contadino si fece da parte per farlo passare. Il cane dell’uomo gli era saltato addosso scodinzolando. Lui accarezzò l’animale, salutò il suo padrone e continuò per la sua strada.

L’aria sapeva di campi, di erba secca, di fanciullezza, di ricordi: ancora ricordi! Da un albero di fico volarono via dei tordi. Fichi neri e grossi come pere pendevano dai rami dell’albero. La vista di quella frutta lo fece trasalire e immediatamente un sapore di fichi lo pervase.

Lasciò il sentiero che stava percorrendo. Cambiò direzione. Tagliò attraverso proprietà private fino ad un terreno, un terreno ora incolto. Era pieno di erbacce, irriconoscibile. Rimase pensieroso. Quel terreno, una volta, Peppe, il contadino, non smetteva mai di coltivarlo. L’aveva a mezzadria e lì le sue forze si distribuivano, si accanivano, si esaurivano. Se l’anno fosse stato di quattrocento giorni, lui avrebbe trovato il modo di lavorarci quattrocentouno. Lo si vedeva sempre là e, a seconda della stagione, con la zappa o il falcetto, la pertica o il paniere.

Nella stagione della semina, il signor Peppe partiva da un angolo del campo e, colpo di zappa dopo colpo, iniziava a dissodare il terreno. Fermo, risoluto, piegando leggermente le gambe e facendo muovere la parte superiore del corpo, alzava e abbassava con possenti braccia quel lungo manico di legno alla cui estremità luccicava la lama di ferro del suo utensile di lavoro, che rompeva la crosta dura del terreno e penetrava nel suolo tirando verso sé la terra. Questa si sbriciolava in piccole zolle e granelli.

Lo si vedeva da lontano, piantato in quel campo, per giorni e giorni. Ritmicamente sollevava e affondava la zappa nel terreno che gli stava davanti. E così fino a quando non fosse stato tutto dissodato e seminato. Subito dopo metteva al centro e ai lati degli spaventapasseri per far sì che gli uccelli non gli beccassero le sementi.

Passava del tempo prima che il terreno si coprisse d’un piccolo manto verde e fragile. Poi, quando il frumento era già alto, allora il dorso del contadino s’immergeva in esso strappando via le cattive erbe per lasciar crescere il grano.

E cresceva cresceva mettendo su barba foglioline semi e colore. Appariva, in lontananza, verdescuro, rifletteva sulle sue lunghe e sottili spighe i raggi dorati del sole e bastava un filo di vento per farlo ondeggiare come flutti marini. Di nuovo il grano cambiava vestito, arancione e, infine, un giallochiaro addolcito, segno del suo frutto maturo.

Questa volta il signor Peppe, con il falcetto in mano, prendeva posizione proprio là dove mesi addietro aveva dato i primi colpi di zappa, incominciava a mietere. Falciata dopo falciata, fastello dopo fastello, mucchio dopo mucchio, covone dopo covone, tutto, finché il terreno non somigliava a un campo di tende indiane, coperto da una corta barbetta ispida e tagliente: la stoppia. Proseguiva col lavoro fino alla battitura del grano sull’aia; poi il mulino, la farina, la pasta, le tagliatelle, il pane: egli sì che ne conosceva il prezzo!

La moglie, malata, debole, gli portava da mangiare lì sul lavoro, nonostante il suo stato di salute. Quando il signor Peppe l’avvistava da lontano, con quel cestino coperto d’un tovagliolo bianco sotto il braccio, il suo palato si inumidiva. Smetteva di lavorare e preparava il posto dove pranzare. Nella giornata, quello era l’unico riposo che si concedeva. Gli piaceva sedersi per terra, sotto un albero di ulivo, nel punto in cui il terreno era chiazzato dai raggi del sole e, con le gambe allungate, consumava il suo piatto di fave inzuppando il pane nell’olio.

Adorava mangiare pian piano gustando un boccone dopo l’altro, masticando come le mucche quando ruminano, senza parlare, con gli occhi fissi innanzi a sé, lasciandosi avvolgere dalla quiete e dal panorama che lo circondava. Ogni tanto, prima di annaffiarsi la bocca con un goccio di vino, dava un’occhiata alla moglie che sedeva lì accanto a lui, in silenzio, poi beveva.

Il signor Peppe non se la prendeva né col suo proprietario perché gli portava via metà di tutto quello che cresceva in quel pezzo di terra, né col Padreterno quando gli mandava una tempesta di grandine rovinandogli alberi e seminato. No, il signor Peppe non se la prendeva con nessuno. Era intoccabile e, a forza di lavorare nel campo, era diventato come la terra stessa che, anche se distrutta dal cattivo tempo, continuava a rimettersi e a dare frutti senza lamentarsi.

Nicolò ricordò che, ogni tanto, ma solo se si avvicinava troppo al signor Peppe, questi gli rivolgeva la parola. Una volta, poco prima che lui facesse a pezzi la fionda, aveva ucciso una lucertola lanciandole un sasso. Il contadino, che stava zappando lì vicino, l’aveva visto. Allora aveva smesso di zappare e alzando la schiena, gli aveva chiesto:

“Perché l’hai ammazzata?”

Nicolello non seppe dare una risposta. Si sentì però turbato da quella domanda. L’altro lo guardò, poi, come se non avesse detto niente, aveva ripreso il suo lavoro.

Un’altra volta, incontrandolo per strada, il contadino si era fermato, l’aveva scrutato e poi gli aveva detto: “Anche le lucertole hanno il diritto di vivere.”

Nicolello questa volta, l’unica volta, lo odiò, ma non mosse parola, si limitò anche lui a sbirciarlo.

Poi c’era stata quella volta che l’aveva chiamato, mentre gli stava girando intorno da un pezzo, e gli aveva detto: “Vieni ad aiutarmi a raccogliere i fichi.”

Nicolello prendeva quelli più in alto e li porgeva al signor Peppe che li poneva delicatamente in un paniere. Ogni tanto gli faceva segno di mettersi un fico in bocca, e lui lo faceva.

Da allora tra il contadino e Nicolello era nata un’amicizia fatta d’intesa, più di silenzio che di parole.

Dopo aver dato un’ultima occhiata a quel terreno ora desolato e incolto, Nicolò camminò fino alla casa del signor Peppe. Era vuota, nessuno più ci viveva: era rimasta sola e abbandonata a se stessa. Come nel campo, anche là crescevano le erbacce, e crescevano persino sul davanzale della finestra e sulla soglia della porta. Alcune tegole ridotte in cocci erano sparse per terra. Il recinto intorno all’abitazione era rotto in più parti e il cancello d’entrata anch’esso sfasciato. Lì dove una volta c’era ordine e vita, adesso regnava il disordine e il silenzio. Il tempo, quello che ti conta anche i secondi che ti restano da vivere, era preciso, matematico, mai sbagliava né risparmiava. Anch’esso, come il falcetto del signor Peppe, troncava senza sosta.

 

1 Dannazione! Non posso crederci, non posso proprio credere che queste creature esistano ancora!

2 Non può essere vero. Non posso crederlo.

Per acquistare il romanzo, visitare la pagina dedicata a Fiori di sierra.

 

 

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *