Fiori di sierra, romanzo, la vita all’estero, parte seconda (5)

V

“Non si può ragionare con te!” grida Amedeo. “Non puoi aspettarti che uno che abbia studiato fino all’età di venticinque, trent’anni, guadagni quanto un operaio.”

“Non quanto un operaio, meno, ho detto,” dice Nicolò.

“E per quale ragione?”

“Per la buona ragione che l’operaio, per il lavoro duro ripetitivo umiliante pericoloso bestiale e cretino che fa, viene emarginato da ogni piacere professionale intellettuale artistico culturale. La sua occupazione lo rende più vicino agli animali che agli esseri umani. Di più. L’operaio, anche se svolge un lavoro duro e ripetitivo, è comunque, il suo, un lavoro sano e utilissimo alla società. Ancora. Quello che lui fa, lo fa per permettere a coloro che inseguono piaceri e ideali di realizzarli. Questi signori, dato che lui si sacrifica per loro, dovrebbero riconoscergli il più alto salario per ricompensarlo del lavoro di merda che fa durante tutta la vita. In una società giusta, che si rispetti, coloro che fanno il lavoro più duro, dovrebbero essere i più pagati. Io la penso così!”

“Tu sei pazzo, ecco tutto.”

“E tu il solito somaro.”

“Sono animali felici i somari.”

“Ci credo. Stai parlando in prima persona.”

“Se mi avessi già raccontato tutta la tua storia, adesso ti avrei  tolto il disturbo di riprovare a buttarti sotto la metropolitana.”

“Non preoccuparti, farò come Shahrazàd, prolungherò il racconto finché non ti avrò addolcito.”

“Abbiamo perso già troppo tempo con le nostre chiacchiere. Racconta. Eravamo rimasti alla vecchia,” fa impaziente Amedeo.

“Non sono chiacchiere.”

“Per me sì. Racconta.”

Nicolò fissa il cugino. Pensa che è sempre avido di novità, a volte spavaldo, altre volubile, ma sempre comunque generoso. Anche quella sera era arrivato con un paniere pieno di cibo.

Amedeo alza lo sguardo, vede che il cugino lo sta guardando, ravvia con la mano il ciuffo di capelli neri ondulati che gli cascano sugli occhi, si muove, fa: “Allora?”

“Sì, ci sono,” dice Nicolò calandosi nuovamente in quegli anni dolenti della sua vita all’estero.

“Come ti dicevo, le cose mutarono in meglio per me, grazie alla vecchia. Trovai lavoro da quel tipo che lei mi aveva fatto conoscere. Era un uomo duro ma giusto. Con me, nulla da dire, sempre un gentleman.

“Apparentemente il suo club era un night-club. Si doveva lavorare con lo smoking. Me lo comprò lui. Non fece solo questo. M’insegnò anche il mestiere di cameriere, di barman e come comportarmi con la ‘buona società’.

“Una volta apprese queste cose, rimase la routine: dalle dieci di sera alle tre del mattino cinque volte per settimana. La paga era soddisfacente, guadagnavo più di quello che mi serviva per vivere. Quel posto, per me, era un sogno. Figurati, mi permetteva anche di studiare durante il giorno!

“Quando la mia benefattrice vendette l’appartamento per andare a vivere nel sud della Francia, dovetti trovarmi una nuova sistemazione. Trovai una camera alla Pension Bilingue in una viuzza simpatica vicino al Sacre Coeur. Quella nuova dimora era del tutto diversa dalle mie precedenti. C’era un’atmosfera disinvolta, amichevole e mi piaceva la vicinanza con Montmartre. Andavo spesso a Place du Tertre, dove ci sono tutti quei pittori che dipingono quadri e fanno ritratti ai passanti, ai turisti. Imparai a conoscerli per nome quasi tutti.

“Durante l’inverno, quando il tempo era brutto, i ritrattisti non avevano molto da fare. Ci si riuniva allora in uno dei bar là nei pressi e si beveva, si mangiava, si discuteva di arte, di politica, di donne e di tante altre cose, si giocava a scacchi. Appresi in fretta questo gioco, così, quando non avevo voglia di studiare ed ero libero, mi ci dedicavo con piacere.

“Il padrone della Pension Bilingue, monsieur Ronsard, era un uomo attempato. Viveva con sua moglie, una donna molto più giovane di lui. Ronsard era originario della Bretagna. Aveva lasciato la famiglia quand’era ancora giovane e si era messo a girovagare per la Francia, fino a quando i tedeschi non avevano occupato Parigi durante l’ultima carneficina. A quel tempo si trovava a Narbonne. Si recò subito nella capitale e si unì ai partigiani per combattere l’invasore.

“Dopo alcune missioni pericolose, fu preso prigioniero e portato al campo di concentramento di Struthof, nel Bas-Rhin. Era rimasto là fino alla fine della guerra. Tornato in patria, aveva ricevuto una croce di ferro per quello che aveva fatto per il suo paese.

“Dopo questo riconoscimento, Ronsard, reduce dal lager, ritornò in Bretagna con la speranza di ritrovare la famiglia. Nessuno. La guerra gliel’aveva portata via tutta.

“Partì allora per l’Algeria dove fece fortuna importando ed esportando merce per vie più illegali che legali. Poi, quando verso la fine degli anni cinquanta, la situazione tra Francia e Algeria si deteriorò, decise di ritornarsene in patria.

“Si stabilì a Parigi. Qui, coi soldi che aveva fatto, acquistò un edificio trascurato, lo restaurò e lo trasformò in una pensione. Oltre al francese, parlava anche un po’ di arabo, la battezzò: Pension Bilingue.

“Il nome fu una trovata e ben presto affittò tutte le camere a degli studenti.

“Da quando era stato in Algeria, i francesi lo chiamavano pieds-noirs (piedi-neri), nomignolo affibbiato a tutti quelli che erano vissuti là. Non aveva mai potuto sopportare quel nomignolo. Era offensivo, secondo lui, e sentirselo dire lo mandava in bestia. Non poteva abituarsi all’idea che, dopo aver combattuto per il suo paese, dopo aver salvato dei francesi a rischio della propria pelle, quegli stessi signori gli appioppassero ora quel terribile soprannome: pieds-noirs!

“Così, un po’ per volta, perse i pochi amici che aveva e infine non gli rimasero che i suoi pensionanti, i suoi ricordi, la sua solitudine.

“Più tardi, nella vita del Ronsard, arrivò Sylvia. Veniva da Sydney, Australia. Era una giovane insegnante di lingue che si era recata a Parigi per studiare francese. Ma la vita parigina l’aveva attratta più delle aule scolastiche. Si era fatta subito molti amici, aveva iniziato a condurre un’esistenza scapigliata dimenticando ogni giorno di più la ragione per cui era là.

“Un bel giorno i suoi genitori avevano smesso di mandarle soldi con la speranza che ritornasse in Australia. Non l’aveva fatto. Anzi, si era infuriata con loro. Non c’era una ragione per non continuare a mandarle del denaro. I genitori erano benestanti e lei era la loro unica figlia. Inoltre, quand’era in Australia, aveva fatto tutto quello che poteva fare per rendere loro la vita facile e felice. E ora?

“Sì, forse c’era una ragione per non inviarle più soldi: quella dell’egoismo, quella di voler a tutti i costi la figlia lì con loro per accudirli e servirli.

“Sylvia non aveva voluto sentir ragioni. Non era ritornata a casa. Aveva deciso di restare a Parigi, di trovarsi un impiego e di fare a meno del loro aiuto.

“Le lezioni d’inglese che aveva iniziato a dare non le fruttavano molto. Non poteva più invitare i suoi amici al ristorante e tanto meno vivere in un grande appartamento e dare party allo champagne. Dovette ritoccare il suo stile di vita. Di più. Incominciarono anche i problemi, problemi economici e problemi di relazione. Quelli che frequentava erano abituati a prendere da lei e non a dare. E così, pian piano perse tutti i suoi amici. Anche le lezioni private diminuivano e non trovava nuovi alunni. Finì per doversi trovare un altro lavoro, poi un altro ancora e infine si ridusse a fare tanti e diversi mestieri: cameriera, babysitter, serva, operaia alla catena di montaggio e, alla fine, la voilà, sul marciapiede!

“Certo, quest’ultima esperienza avrebbe potuto risparmiarsela se non fosse stata così cocciuta e ribelle coi genitori. Non volle arrendersi, comunque, perché era convinta che si erano comportati ingiustamente nei suoi confronti. Non lo tollerava. Si era infine ostinata nella sua idea, rimase a Parigi.

“Sola, senza più nessuno che la desiderasse, colpita dalla mala sorte e usata dagli uomini, Sylvia non riusciva a darsi pace di quel voltafaccia della fortuna. Non riusciva a capire. Insomma, si poteva, si poteva passare dalle stelle alle stalle così in fretta? Sì, si poteva. Era il suo caso. La vita, a volte, è molto sorprendente!

“Il Bretone, il signor Ronsard, la vide una sera che batteva vicino a casa sua. Si avvicinò, le parlò, si parlarono. Più tardi, quando incominciarono a conoscersi un po’ di più, le chiese perché lei, una professoressa, facesse quel mestiere.

“For fun” 1 gli aveva risposto lei più per provocazione che per altro.

“In realtà Sylvia non era finita sul marciapiede for fun, l’aveva fatto per puntiglio, per provare ai suoi che era capace di mantenersi da sola senza il loro aiuto.

“No begging to the parents” 2, usava dire.

“Ronsard, in ogni modo, con il suo savoir faire, pian piano, se la fece amica, le diede anche una camera nella pensione e in seguito un lavoro.

“Sylvia, riconoscente per tutto quello che lui aveva fatto per lei e conoscendo la sua vita, in un momento di profonda emozione, gli disse che era pronta, se lui l’avesse voluto, a sposarlo. Il vecchio Bretone, che sulla fortuna non ci aveva mai sputato sopra, non se lo fece dire due volte: si sposarono.

“Quando arrivai alla Pension Bilingue, Sylvia era già sposata da alcuni anni col Ronsard. Vivevano una vita tranquilla. Gli era fedele. Lo stimava, rispettava, amava.

“Purtroppo gli anni erano gli anni e il Bretone ne aveva tanti. Iniziarono, per lui, i problemi della vecchiaia, della salute, le visite mediche, i farmaci.

“Ebbe un attacco cardiaco alcuni mesi dopo il mio arrivo. Non tirò subito le cuoia. Visse ancora qualche anno pieno di acciacchi, però sempre contento e felice della sua Sylvia che l’assisteva, gli voleva bene e si prendeva cura della pensione.

“E così, mentre il marito prendeva sempre più rapidamente congedo dalla vita, lei cominciava ad affrontarla con maggior forza e consapevolezza. Finì non soltanto di prendersi cura di suo marito e di gestire la pensione, ma anche per riprendere i suoi corsi di francese e le sue letture preferite: i romanzi.

“Leggeva molto. Ogni volta che andavo a pagare la pigione, la trovavo con un libro in mano.

“Un giorno le chiesi, così, tanto per dire qualcosa, perché leggesse tanto e in perfetto italiano rispose:

“Per passatempo, per piacere, per conoscere di più della vita, per illuminarmi. Pensa che siano sufficienti queste ragioni?”

“Et comment” 3 le avevo risposto in francese e chiesi: “Mais vous parlez italien?” 4

“Non l’ha sentito?” rispose. “Sono una professoressa d’italiano. Mi sono laureata in questa lingua all’università di Sydney. Adesso sto leggendo Gli indifferenti di Moravia. Lei è uno studente italiano, vero? Mi piacerebbe tanto che qualche volta mi parlasse del suo paese. A proposito, che ne pensa de Gli indifferenti?”

“Non ti dico, Amedeo, il mio disagio. Ma quando poi lei mi fece quest’ultima domanda, ero già molto nervoso. Non seppi cosa rispondere.

“Da anni ormai nascondevo le mie origini e se potevo anche il mio  paese. L’avevo rimosso e anche la lingua. Certo ero uno studente

e continuavo i miei corsi di filosofia all’università. Ora, però, io, secondo lei, ero uno studente italiano, quindi ero anche un legittimo erede d’una buona fetta della cultura italiana. E fin qui, non conoscendo il mio background, aveva ragione. Come, allora, avrei potuto far capire a quella donna che io ero sì italiano, ma che dell’Italia non sapevo nulla?

“Nei corsi che avevo frequentato per ottenere la maturità, avevo dovuto studiare solo l’indispensabile della cultura francese e nel mio corso di filosofia alla Sorbonne, la filosofia italiana non si menzionava neppure. Perciò, della cultura italiana, a parte quella di questo posto, non ne sapevo proprio niente, nonostante fossi uno studente italiano!

“In ogni modo, e vai a sapere perché, intuii che con Sylvia non dovevo  barare,  che  dovevo  dirle la verità. Ma come? E da dove iniziare? Passai un momento di confusione lì di fronte a lei. Non riuscivo ad aprire bocca. Stavo per naufragare sullo scoglio della mia propria furbizia, stavo per essere scardinato, esposto. Era la ragnatela, la ragnatela che m’intrappolava, e il ragno era là, pronto a saltarmi addosso.

“Finii per dirle, in francese, che avremmo potuto parlarne un’altra volta, se proprio ci teneva. Rispose che ne sarebbe stata felicissima. Poi pagai la pigione e andai via.

“Siamo in gennaio. La Place du Tertre, le strade, gli alberi nei giardini, le piazze, i tetti di Parigi, sono tutti coperti di neve e il cielo è pronto a mandarne giù dell’altra. Fa freddo. Sto rientrando dall’università. Non appena passo davanti all’ufficio, Sylvia mi vede, si affaccia alla porta, mi rammenta la promessa dicendo:

“Oggi è la giornata ideale per raccontare storie.”

“Ha ragione,” dico. “Il tempo è brutto, si gela e sembra che voglia nevicare ancora.”

“Mi dia il tempo di preparare del caffè e poi venga,” dice.

“Va bene,” rispondo.

“L’ufficio si trova all’entrata del fabbricato e dà sulla via. Attraverso le tendine della finestra si vedono i fiocchi scendere, farsi fitti. Le silhouettes dei passanti appaiono e scompaiono in un continuo viavai.

“Sylvia è seduta sul sofà con una grande tazza di caffè fumante tra le mani, avvenente, vispa, pronta.

“Io sono seduto in una poltrona di fronte a lei con una sciarpa di lana rossa al collo. Anch’io con la tazza di caffè tra le mani per riscaldarmele. Sento freddo, ma lì dentro freddo non fa.

“Le chiedo in francese come sta monsieur Ronsard. Risponde che sta bene e che è l’ora della sua siesta. Poi fa:

“Adesso la smetta di parlarmi in francese. So che non potrò mai parlare l’italiano come un’italiana, anche se mi sono laureata in questa lingua. Cercherò di fare del mio meglio, perché lei mi capisca, di più non posso prometterle. Su, dài, ora però mi parli nella sua lingua, non l’ho più sentita da quando sono a Parigi. Il mio professore a Sydney diceva che l’italiano è una lingua musicale, che non la si può parlare senza cantarla.”

“Mi mordo le labbra mentre dice queste cose. Sento che devo farmi coraggio, che non posso dire a lei la stessa cosa che ho detto a Marina, che ero in Francia per parlare francese. No, non posso fare questo con Sylvia e tanto meno raccontarle balle. Comincio, controvoglia, ma comincio.

“Sono spiacente di doverla deludere,” le dico in francese. “Io sono italiano, sì, però non parlo italiano, parlo solamente il dialetto del mio villaggio. Lei proviene sicuramente da un paese che le ha dato una lingua, un’educazione, una cultura evoluta. Il mio, a me, nulla di tutto questo. Mi ha dato invece fame ignoranza cecità. A malapena so che Calvario, il paesetto dove sono nato, si trova in quella parte della penisola chiamata il Mezzogiorno, parola, quest’ultima, che ho appreso in Francia. Tutto qua. Quando il discorso cade sull’Italia, io non so nulla di preciso, è un continuo indovinare, un parlare per sentito dire.

“Sono convinto che ogni specie, persino gli alberi e le pietre, consci o inconsci, siano contenti di quella zolla e di quel luogo dove sono nati, dove il caso li ha sistemati. Ma io, io che non sono né pietra né pulce né albero, io che ho coscienza e conoscenza, come posso essere contento del posto dove sono nato?

“Ho sempre lavorato da quando ho incominciato a reggermi sulle gambe, forse anche prima, forse devo essermi abituato al lavoro sodo che faceva mia madre in casa e nei campi quando mi portava in grembo. Così ho imparato a lavorare ancora prima di nascere. Questo, devo dire, mi è stato utile. Anzi, è grazie a questa mia capacità di adattarmi a qualsiasi tipo di lavoro, se oggi sono ancora in vita e posso studiare.

“La mia non era una famiglia colta, una famiglia felice, la mia era una famiglia primitiva rozza bruta, una famiglia che, trapiantata nell’età del bronzo, difficilmente si sarebbe accorta di vivere in un mondo tanto arretrato. Questa è la realtà in cui io sono nato e vissuto fino all’adolescenza.

“Pensi che hanno ucciso mio padre quand’ero bambino, mia sorella è scappata da casa con un criminale, mia madre è stata stuprata, mio fratello l’hanno ucciso sotto le armi, io sono stato strappato dalla scuola quando avevo nove anni e ho iniziato subito a lavorare e mia madre mi ha sempre trattato più da bestia che da essere umano. La mia non è stata un’infanzia facile, e non parliamo felice, e se non avessi lasciato il girone in cui sono nato, sarei probabilmente marcito là divenendo un niente, oppure un omicida, oppure un bersaglio, come mio padre, di qualche fucile nascosto nel buio. Le cose, là, funzionano così.

“In questi ultimi anni ho scoperto la mia ignoranza, le mie catene, la mia infelicità, ho scoperto che avevo una testa che puzzava, una testa piena di idiozie, di superstizioni, di nonsenso. In breve, ho scoperto di essere, culturalmente parlando, un letamaio. Sto facendo di tutto per migliorarmi e per capire in che razza di mondo vivo.

“Vorrei anche dirle che la gente mi ha spinto spesso a raccontare bugie. Non sono nato bugiardo, bugiardi non si nasce, si diventa, come lo sono diventato io. Però, ecco l’inesplicabile, con lei ho sentito subito che non avrei mai potuto raccontarle bugie. Prima perché, ho pensato, se ne sarebbe accorta, e poi perché lei mi sembra una di quelle persone con le quali non c’è bisogno di dire bugie per farsele amiche o nemiche.

“A questo punto smetto di parlare. Lei mi guarda, composta, riflessiva. Mi aveva ascoltato tutto il tempo con attenzione. Rimane sempre composta. Beve un sorso di caffè, fa:

“Mi duole, mi duole proprio tanto averla spinta a dirmi cose che non voleva. Se avessi saputo, mi creda, non l’avrei fatto.”

“No,” le dico, “non deve dolersi di niente. Le cose stanno così e io non posso soffocare in me ciò che più mi ha tormentato in questi ultimi anni e continua a tormentarmi.”

“È fu così, caro cugino Amedeo, che conobbi Sylvia. In seguito si offrì, se avessi voluto, di darmi lezioni d’italiano nel tempo libero. Accettai. Le dissi che tutto il mio svago, da quando ero là, era andare di tanto in tanto a giocare a scacchi coi pittori di Place du Tertre, ma che ero ben disposto a rinunciarvi per le sue lezioni d’italiano.

“Qualche tempo dopo, Ronsard non resistette a un altro attacco cardiaco. Ritornò alla natura da cui era venuto, lasciando a Sylvia tutto quello che aveva. Lei continuò a gestire la Pension Bilingue e iniziò, dalla prima domenica dopo il funerale, ad andare al cimitero a portargli i fiori. Mi ci volle del tempo per capire l’amore, l’affetto, il rispetto che lei provava per il Bretone.

“Si erano trovati soli al mondo, sapevano cosa volesse dire questa esperienza: Sylvia, una prostituta con un pessimo rapporto coi suoi e con quelli che l’avevano prima sfruttata e poi abbandonata; lui, né famiglia né amici, vecchio e solo. Puoi capire le loro anime: non piene di gioia e di amore, ma frustrate disperate brulle. La loro amicizia era gradualmente diventata l’amicizia di due esseri che riuscivano a comunicarsi quello che più profondamente li legava: la loro umanità.

“Insomma, quella di lui era la poesia del tramonto; quella di lei di un’aurora selvaggiamente vissuta. La loro differenza di età era sparita, la loro relazione una scoperta, una resurrezione, un addolcimento dell’animo e del cuore.

“Il vecchio, mi raccontò più tardi Sylvia, sapeva che lei stava insegnando italiano a un italiano, lei che era australiana!

“Sylvia, comunque, non mi aveva mai fatto sentire a disagio insegnandomi la nostra lingua. Era un’ottima maestra e psicologa. Quando mi dava lezione, mi faceva partecipare allo studio. Come? Fingendo di non capire, di sbagliare tempi e ortografia per vedere se capivo i suoi errori, se sapevo ciò di cui stavo parlando e così via.

“Mi spingeva a parlare, a scrivere, a raccontare le mie esperienze, i miei interessi in un italiano sempre più corretto.

“Andava alle origini di ogni argomento: lingua storia letteratura. Spiegava come il nostro idioma, l’italiano, che ha radici profonde nel latino, derivi dal gruppo delle lingue indoeuropee, come arrivò a formarsi, a diventare la lingua nazionale.

“Quel suo modo d’insegnare mi piaceva, mi stimolava, mi motivava a studiare. Riusciva a farmi ragionare, a scegliere tra una frase vuota, retorica, priva di contenuto e un’altra dove c’era un senso profondo.

“Facevamo lezione in uno studio gremito di libri. Quel locale pian piano era diventato un luogo di riflessione, di discussione, di ritrovo. Le prime due notti della settimana non lavoravo e, dopo la morte di Ronsard, le trascorrevamo insieme studiando fino all’una, alle due del mattino.

“Non violavamo mai i nostri rispettivi ruoli di studente e professoressa. Sia da una parte che dall’altra sapevamo mantenere una certa distanza, un certo decoro. Ci capitava di ridere, scherzare, raccontare aneddoti e sempre in modo disinvolto e piacevole. Sylvia era una donna bella, intelligente, generosa. Avevo molto rispetto per lei.

“Non usciva quasi mai. La grande città che una volta l’aveva tanto incantata, ora non l’attirava più. Se le capitava di uscire, era per andare a posare un mazzo di fiori sulla tomba del Ronsard o per entrare in una libreria. I negozi di moda non la vedevano mai varcare la loro soglia. Il suo abbigliamento era piuttosto antiquato. Sylvia era riservata, non faceva mai sfoggio di niente. Sembrava muoversi in un alone fatato, sul filo delle cose.

“Nonostante questa sua personalità eterea, sapeva sbrigarsela anche coi fatti concreti della vita, farsi rispettare e stimare dalla gente che abitava e lavorava lì.

“Un lunedì mattina, e questa per me fu una vera sorpresa, venne a bussare alla mia porta. Mi chiese se volevo accompagnarla a fare una gita in campagna, aveva voglia di vedere un po’ di verde, sentire l’odore della terra, mescolarsi con la natura.

“Arrivammo verso mezzogiorno vicino all’Ile de St. Germain, fuori Parigi. Il tempo, prima indeciso, poi si era messo al bello. L’aria sapeva di primavera. Cercammo un posto sul bordo della Senna, dove l’erba cresceva alta, folta e la tranquillità era assoluta. Sylvia posò il cestino, prese una tovaglia, la distese, ci si sedette sopra.”

“Siediti anche tu,” dice.

“È la prima volta che mi dà del tu.

“Quando sono seduto accanto a lei, mi guarda, mi sorride, si gira, con la mano destra cerca qualcosa  tra l’erba, recide uno stelo sottile, giallino, poi un altro più grande, tutto verdeggiante. Li osserva tutt’e due, fa:

“Vedi, non si direbbe, ma l’egoismo esiste di per sé nel cuore stesso della natura. È un egoismo inconscio, istintivo, naturale, ovviamente, ma esiste. Guarda questo gambo piccolino. Non è riuscito a svilupparsi perché quest’altro vicino a lui è più robusto e non glielo permetteva, mangiandogli la sostanza alle radici e privandolo della luce con le sue larghe foglie. Se l’avessimo liberato dalle radici del gambo potente e da tutto ciò che gli impediva di svilupparsi, avrebbe fatto ancora in tempo a riprendersi, a crescere.”

“Pensa,” faccio io sintonizzandomi con il suo pensiero, “pensa che quel gambino patisse per il fatto di essere stato privato del nutrimento necessario alla sua crescita? In altre parole, privato del diritto naturale di crescere?”

“La natura non conosce diritti, anche se li crea,” risponde Sylvia. “Noi non sappiamo se il gambo sottosviluppato soffrisse come soffriamo noi quando qualcuno ci toglie la possibilità di svilupparci. Possiamo però vedere che la vittima patisce per il suo mancato accrescimento, mentre gli altri gambi, quelli che trovano nutrimento, quelli che depredano senza essere depredati, questi crescono, portano a maturazione i loro frutti, le loro potenzialità. Conscia o inconscia, la sofferenza c’è.”

“Allora,” osservo io, “questo egoismo cieco, questa ingiustizia che si trova nell’ordine stesso delle cose, si trova anche negli uomini, giusto?”

“Giusto.”

“Quindi,” faccio io, “non è possibile estirpare il male negli uomini e renderli più equi, se l’egoismo è insito nelle fondamenta stesse della loro natura.”

“No,” risponde lei, “non è esattamente così. È vero che negli uomini ci sono molte leggi innate, istinti, che sono addirittura determinati, ma è anche vero che queste leggi vengono continuamente sostituiti da comportamenti acquisiti. Tra questi ci sono l’educazione, il senso della giustizia, la consapevolezza del buono e del cattivo, la cognizione che la natura stessa, anche se dà uno scopo ad ogni cosa che germoglia in essa, lo fa ciecamente. Tutto è la natura, se vista in termini umani, eccetto che giusta. La logica, il razionalismo, il concetto di equità, sono nostre invenzioni, creazioni, una nostra seconda natura. È questa seconda natura che dovrebbe imporsi sulla prima se si vuole vivere bene e da esseri umani.

“Vedi, se gli uomini applicassero, non il concetto dell’egoismo, che è innato, non una cultura predatrice, la cultura del forte contro il debole, e tanto meno la cultura dell’esproprio e dell’inganno che si è sviluppata dall’egoismo, ma se applicassero il concetto dell’altruismo, della giustizia, della solidarietà, dell’umanità, che sono concetti culturalmente acquisiti, risolverebbero, se non tutto, almeno una buona parte dei problemi dell’ingiustizia sociale.”

“In altre parole,” dico, “la soluzione c’è, solo che l’uomo agisce per il proprio tornaconto. Sa che per potersi mangiare due pagnotte deve privarne un altro di una e lo fa lo stesso, corretto?”

“Corretto,” conferma Sylvia.

“E perché,” chiedo ancora, “la società permette questa iniquità, questa prepotenza tra un essere e l’altro?”

“La società non esiste,” fa lei, “la società è un’astrazione. Esistono gli individui e, guarda caso, sono proprio loro che afferrano due pagnotte e lasciano agli altri, a quelli meno preparati, le briciole. Questi individui dalla mano svelta e lunga, che poi sono una minoranza, sono anche coloro che decidono e legiferano secondo, non leggi comuni e giuste, ma secondo i loro scopi e interessi.”

“Dunque, il mondo, istituzionalmente parlando, è marcio?” faccio io pensando a Gina.

“Ah, ora basta con questo noiosissimo discorso,” fa Sylvia questa volta con un senso d’irritazione. “Dimmi piuttosto cosa vuoi dalla vita?”

“Questo suo scatto d’irritazione e questo cambiamento repentino di tema mi sorprendono. Usualmente era come un bracco che afferrata la preda, non la molla più, così Sylvia non mollava mai l’idea in discussione finché non ne aveva estratto tutto il succo, finché non era andata fino in fondo. Non quella volta però, a meno che non pensasse di aver già detto tutto quello che c’era da dire.

“Per molti anni,” riprendo, “questa idea, di cosa volessi dalla vita, non mi era passata neppure per la mente. Quelli come me non nascono per vivere la vita che vogliono ma per vivere la vita che altri hanno già deciso per loro. È così che funzionano le cose tra i dannati della terra e io appartengo a questi. Ora, almeno in questi ultimi anni, non faccio che pensarci. Sono impaziente, in particolar modo, di capire perché una classe di uomini ne tiranneggia un’altra. Insomma, chi gli ha dato il diritto di credere che la vita dev’essere tutta una gamma di piaceri per alcuni e un’infinità di tormenti per altri? Questo è ciò che vorrei scoprire.”

“È siamo di nuovo alla politica,” fa lei disgustata. “Bene, se è questo tutto quello che vuoi dalla vita, non preoccuparti, lo scoprirai ben presto, perché è d’una banalità mozzafiato.”

“Non è solo questo ciò che voglio dalla vita. Sono pieno di curiosità, di domande, domande che cercano risposte. Adesso vorrei capire il concetto di ingiustizia, e questo si capisce, perché, io, questo concetto l’ho vissuto e lo sto vivendo sulla mia pelle. Voglio capirlo. Voglio conoscere chi calpesta chi e perché. È per questo che sto studiando filosofia. Voglio capire come stanno le cose fra gli uomini. Solo allora avrò pace. Sono anche cosciente che non posso realizzare la mia vita tutta in una volta. Certamente non con un ‘Sì’ o con un ‘No’ e tanto meno seguendo un’ideologia politica o di qualsiasi altro tipo.”

“Mi guarda, mi guarda a lungo negli occhi, mi sorride di nuovo, fa: “Allora la faccenda non sarà poi così semplice, anzi diverrà sempre più problematica,” e si allunga sull’erba con le mani sotto la testa sperdendo il suo sguardo nel cielo sopra di noi.”

“Ma di cos’eri fatto a quel tempo?” scoppia Amedeo interrompendolo. “Non scorreva più sangue calvarese nelle tue vene? Come potevi startene lì, solo e in mezzo alla campagna con una femmina a parlare di cavolate? Non ti riconosco più, Nicolò. Non sei né carne né pesce, sei diventato un mostro, un mostro astuto. Una volta ti comporti come un maniaco sessuale, un’altra sei una specie d’impotente e un’altra ancora un pedante, ma insomma di che pasta sei fatto?”

Nicolò non si aspettava l’attacco del cugino. Fa: “Okay, Amedeo, mi sembra di capire dove vuoi arrivare. Lascia che ti spieghi. Vedi, non era che io mi sentissi impotente o che non mi piacesse Sylvia. In realtà, la desideravo da morire. Perché, allora, vuoi sapere tu, perché non avevo tentato di possederla?

“Per diverse ragioni. Prima di tutto perché provavo un grande rispetto per lei. Mi pare di avertelo già detto. E poi non solo questo. Non dimenticare che Sylvia non era una femmina, era la mia professoressa. Stava facendo di me un uomo migliore giorno dopo giorno, mi stava aiutando a sbarazzarmi della grossolanità che mi portavo appresso insegnandomi un comportamento evoluto e una lingua colta. Inoltre godevo del suo rispetto, della sua attenzione e questo mi sembrava già molto. E non parliamo del fatto che tutto quello che faceva per me era gratuito. Capisci?”

“Proprio quello che ho detto: un mostro astuto e calcolatore, ecco cos’eri,” ribadisce Amedeo.

“Se vuoi definirmi così, fallo pure,” fa Nicolò. “Sicuramente c’erano troppe cose in ballo e non volevo fare qualcosa che avrebbe potuto offenderla. Se questo fosse accaduto, tutto sarebbe andato a rotoli. Non potevo permettermi di fare delle gaffe con lei.”

“Mostro astuto e calcolatore,” ripete di nuovo Amedeo.

Nicolò ignora le sue parole: “Sylvia comunque mi aveva conquistato con la sua cultura, col suo contegno dignitoso, con la sua amabilità. Mi bastava, non chiedevo di più. Era diventata un tabù: cosa da non toccare! Capisci ora?”

“No!” grida Amedeo. “Questo non potrò mai e poi mai capirlo, io. Per me una femmina è una femmina e basta! Ma che professoressa e professoressa! Con tutto quel ben di Dio a fianco, non mi sarei messo lì a parlare di erudite corbellerie sulla natura e sugli uomini. Magari poi, ma non in quel momento. No, non mi sarei comportato come te. Io, mai!”

“Tu sei tu, io sono io.” dice Nicolò. “Adesso ascolta e non m’interrompere. Sono io quello che racconta!”

“E racconta, allora!”

“Forse capirai, con quello che sto per dirti, che il mio atteggiamento distaccato e freddo nei confronti di Sylvia non era poi tanto forzato. Non devi pensare che mi fossi castrato durante quel periodo. Questo era praticamente impossibile e per diverse ragioni.

“Prima di tutto non dimenticare che lavoravo in un night-club e conoscevo ormai un gran numero di donne che non chiedevano altro che di scopare. Alcuni di questi rapporti facevano parte del mio lavoro. Non potevo sempre rifiutare la porta aperta d’una macchina che mi aspettava all’uscita del night per darmi un passaggio. Alla lunga avrebbe potuto andare contro un certo ‘regolamento’ del locale. Inoltre, all’epoca, avevo un rapporto stabile con la moglie d’un ufficiale di marina: Yvonne.

“Yvonne, era una donna molto attraente e sensuale. Cibo di questo genere ne avevo a iosa e ciò mi permetteva di mantenere una relazione platonica con Sylvia. Inizi a capire adesso?”

“Io non mi sono mai trovato in un harem, mai avuto tanta fortuna, perciò è inutile che tu mi chieda se capisco o non capisco, perché la risposta è sempre no. È atroce quello che tu dici!” urla Amedeo nero e si accende un’altra sigaretta.

“Fu lei,” prosegue Nicolò continuando ad ignorare le parole del cugino, “lei che si accese, lei che ruppe la crosta del vulcano e lasciò che le fiamme si spargessero ovunque. Lo si vedeva, sai. Lo si vedeva dal suo abbigliamento. Questo, e per tanto tempo, non l’aveva per nulla interessata. Poi era cambiata. Iniziò a indossare abiti nuovi, ad andare dal parrucchiere, a truccarsi, a curarsi sempre di più. Aveva cominciato anche a stuzzicarmi con delle parole sensuali e arrossiva subito dopo averle dette. Sylvia si era innamorata, era diventata un’altra e questo via via che la nostra conoscenza e amicizia si facevano più intime.

“Sylvia aveva un passato, Sylvia non era tutta santa, tutto studio, tutta rispetto e lavoro, Sylvia era molto di più.

“Ad un certo punto capii che non le bastava conoscere solo il mio cervello, voleva conoscere anche il mio corpo, farlo suo. Così e soltanto così avrebbe potuto possedermi interamente, avrebbe provato un senso di totalità nei miei confronti. Quello che l’aveva trattenuta fino ad allora, era la nostra differenza di età e un certo rancore che sotto sotto covava verso gli uomini. Tutte cose che scomparvero dietro il continuo crescere dell’amore, un amore nutrito di interessi comuni, di amicizia, di reciproca attrazione, desiderio, passione.

“Tutto esplose quel giorno, là sulla riva della Senna, davanti all’Ile de St. Germain. Il nostro amore era forza irruente, sconosciute melodie, fiori di sierra. Aveva un ampio respiro, ali grandi e possenti. Ogni fibra del nostro essere domandava possesso ed esclusività. Non smettevamo più di tuffarci nella sua fonte, di inebriarci. Dolci e intensi desideri scaturivano ad ogni nostro contatto. Ci perdevamo in queste delizie sempre più rapiti e innamorati.

“Seguirono giorni gioiosi, mattine col cinguettio degli uccelli, tramonti felici, notti piene di gemme profumate, suoni e canti di ogni tipo: tutto celebrava questa fantastica esperienza che è l’amore.

“Qualche settimana dopo Sylvia affidò la pensione alla custodia di un’inquilina, io mi presi una vacanza, la prima vacanza della mia vita e ce ne andammo a Mont Saint-Michel, sulla Manica.

“Non avrei mai potuto immaginare tanta felicità. Sylvia era diventata un’altra, era ardita sciolta briosa, scoppiava dalla gioia di vivere e lo faceva con gusto e passione. Anch’io mi sentivo contagiato da quel suo entusiasmo, anch’io scoppiavo dalla voglia di tutto provare e fare assieme a lei.

“Giocavamo a bocce con i sassi, salivamo su rocce, esploravamo i dintorni di Mont-Saint-Michel, ci rincorrevamo sul filo delle onde, fuggivamo davanti alla marea incalzante, inventavamo giochi e giocavamo come bambini su quella sterminata spiaggia.

“Non più libri, ma baci; non più ansie, ma allegria; non più stressati, ma spigliati e gioiosi a cantare le delizie della Vita.

“Avidi di vivere, liberi e senza pensieri, in ogni momento ci tuffavamo in un mondo colmo di profumi e di piaceri.

“Una sera, al ristorante dell’albergo dove avevamo preso una camera, Sylvia domandò al pianista di suonare il Bolero di Ravel. Alle prime note, dopo avermi dato un bacio, si alzò e cominciò a ballare prima tra i tavoli e poi sulla pista. Rimasi meravigliato. Questa era ancora un’altra Sylvia, una che io non conoscevo. I miei occhi non perdevano un suo passo, un suo gesto, un suo sguardo.

“La gente dapprima la guardò stupita, in seguito con interesse e infine formò un cerchio vivace e gesticolante intorno a lei. Anche il pianista si era scaldato. Musica e danza si univano, armonizzavano e Sylvia ballava, ballava, ballava, si lasciava trasportare dalla musica, abbandonandosi interamente.

“Poi, con grazia e brio, si sbarazzò di alcuni indumenti che la impacciavano e iniziò a cantare.

Je n’ai rien

je ne veux rien

je suis tout et je ne suis rien

je suis heureuse et je veux chanter

Je veux chanter pour vous

et pour tous les amours

je veux chanter toutes les joies

et toutes les délices de la vie

Je veux chanter chanter chanter

chanter aux cieux et aux étoiles

chanter l’air et l’eau

la pluie et le vent

les fleurs et leur beauté

je veux chanter

Je veux chanter pour l’atmosphère dont je vis

pour les animaux bons et mechants

pour les hommes et les femmes

et pour la nature et ce qui vit

Je veux chanter chanter

chanter pour ce qui fuit et ce qui gémit

pour le monde et l’infini

je veux charter

chanter chanter chanter

pour mon Amour et pour la Vie.” 5

A questo punto Nicolò smise di raccontare. Notò che Amedeo lo stava sbirciando. Disse: “Tutta questa frenetica voglia di vivere, di sapere, di manifestare, cugino, deriva da cosa? Tu forse hai una risposta, io no.”

Amedeo non dice niente. Intuisce che il racconto sulla vita del cugino, per quella sera, finiva lì. Si alza, abbraccia Nicolò, va via con il passo pesante e la testa piena di pensieri.

 

1 Per svago.

2 Non chiedere l’elemosina ai genitori.

3 Altroché!

4 Ma lei parla italiano?

5 Non ho niente / non voglio niente / sono tutto e sono niente / sono felice e voglio cantare // Voglio cantare per voi / e per tutti gli amori / voglio cantare tutte le gioie / e tutte le delizie della vita // Voglio cantare cantare cantare / cantare ai cieli e alle stelle / cantare per l’aria e l’acqua / la pioggia e il vento / i fiori e la loro bellezza / io voglio cantare // Voglio cantare per l’atmosfera in cui vivo / per gli animali buoni e cattivi / per gli uomini e le donne / e per la natura e ciò che vive // Voglio cantare cantare / cantare per quello che sparisce e per quello che geme / per il mondo e l’infinito / voglio cantare / cantare cantare cantare / per il mio Amore e per la Vita.

 

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