Fiori di sierra, romanzo, la vita all’estero, parte seconda (3)

III

“T’aspettavo,” dice Nicolò.

“Lo spero bene,” fa Amedeo mettendo sulla tavola di fronte a lui un cesto coperto da un tovagliolo bianco.

Nicolò immagina cosa contiene. Annusa. È già raggiunto da un’ondata di aromi. Poi, con un gesto teatrale, tira via il tovagliolo e vede che c’è pasta al sugo, melanzane ripiene, coniglio in umido, polpette, tutto ancora fumante.

“Perbacco!” esclama. “Mi rifiuto di andare a letto stasera fin quando ci sarà cibo sulla tavola,” e si mette a tirarlo fuori dalla cesta.

“Questa è l’idea,” concorda Amedeo.

“Vorrei dirti,” dice Nicolò mentre prepara la tavola, “prima di riprendere il racconto, che trovo difficile esporti schiettamente e realisticamente la storia della mia vita all’estero. Pensavo di essere capace di farlo in modo sereno e naturale, ma mi ero sbagliato. Sento, via via che racconto, il bisogno di ritoccare, di eliminare le cose brutte, correggere gli sbagli che ho fatto, perfezionare, addirittura idealizzare. E non solo. Mi sembra anche di rivivere quei momenti.”

“Dove hai mentito?” chiede Amedeo.

“Nell’episodio del poliziotto di Strasburgo. È verissimo, naturalmente, solo che l’uomo non si è comportato come l’ho descritto io. Intanto non era un anziano, ma un giovane e poi, in verità, appena ricevuto il mio schiaffo, non se l’era tenuto e basta, ma si era difeso e, forse perché aveva capito la ragione per cui l’avevo aggredito, mi aveva lasciato andare dicendo che non ero degno neppure della prigione!”

“E poi, dov’altro hai mentito?” chiede ancora Amedeo.

“Solo lì. Mentre racconto, noto anche che a volte desidererei rivivere certe mie vicende, altre volte, invece, come il caso del poliziotto, rifarle o addirittura non parlarne affatto, dimenticarle. Insomma, censure e approvazioni si contrappongono in me.”

“C’è qualcos’altro di cui avresti dovuto parlarmi e non l’hai fatto?”

“No.”

“È l’unica volta in cui non hai detto la verità è stata quella del poliziotto?”

“Sì. E prometto che ce la metterò tutta, d’ora in avanti, per rimanere il più possibile fedele ai fatti.”

“Bene, allora. Prosegui con la tua storia.”

“Non ancora. C’è un’altra cosa…”

“Sentiamola.”

“Mi capita, mentre racconto, di non riuscire a bloccare il flusso del ricordo una volta iniziato. Questo scatena in me un uragano, mi spinge a parlarne al presente, non al passato, ma al presente e a rivivere, come ti ho appena accennato, quella o quell’altra esperienza proprio come se la stessi compiendo in quel momento.”

“L’ho notato anch’io questo tuo passare dal passato al presente. Non mi disturba. Anzi. E per quello che riguarda il fatto che tu rivivi certe tue esperienze, questo mi pare normale.”

“Okay. Dov’eravamo rimasti ieri sera?” chiede Nicolò riempiendo i bicchieri di vino e sedendosi a tavola.

“Parlavi di bugie, di morale, della scoperta dello studio,” risponde Amedeo prendendo anche lui posto.

“Ricordi tutto.”

“Sì.”

“Salute!”

“Alla tua!”

Bevono. Poi, fra un boccone e l’altro, Nicolò riprende il racconto della sua vita all’estero.

“Mi capitava spesso di giocare al moralista, al debosciato, al saggio, all’imbecille, al rivoluzionario, all’anarchico, al bohémien e a mille altri ruoli che mettevo in scena a seconda del bisogno e delle persone con cui mi trovavo. Ovviamente mi rendevo conto che dicevo bugie, ma non sapevo ancora che erano queste a condurre il mondo.

“L’innocenza, anche se un po’ cattivella e furbesca, trasforma tutto nell’innocenza e io, allora, ero un innocente. Non ero nato mitomane, ero un prodotto sociale, un figlio legittimo dei nostri costumi e delle nostre leggi. E, inoltre, non mi trovavo in condizione di scelta: c’è poco da scegliere quando ti trovi tra catene e salvezza, e se salvezza vuol dire bugie, che bugie siano!

“In ogni modo, in tutto questo spinoso percorso, una cosa mi era chiara: dovevo educarmi, educarmi o sparire. Non potevo e non volevo costruire la mia vita sulle bugie, portare per sempre una maschera. Non c’è nulla di più brutto che incominciare un rapporto con una persona raccontando bugie.

“Di più. Se questo rapporto continuasse, diventasse amicizia, amore, affetto, allora dovresti continuare a dire bugie, a dire sempre bugie proprio alla persona che più ami e rispetti al mondo! Credimi, Amedeo, è bruttissimo dover dire bugie.

“Ora, però, ti parlerò d’una nuova pagina della mia vita, e questa è stata scritta a Parigi.

“Ci arrivai poco dopo aver compiuto vent’anni. Pensavo di aver già provato tutto. Mi resi conto, invece, che ne ero ben lungi! Questa città mi fece capire che il mondo era ancora tutto da scoprire.

“Vissi per un paio di settimane in una lercia pensione vicino alla Gare du Nord, il tempo che mi ci volle per trovarmi un’occupazione.

“Dopo aver bussato a parecchie porte, una ditta di materie plastiche mi offrì un lavoro con alloggio fuori Parigi. Non volevo allontanarmi dalla capitale, la mia idea era di trovarmi un lavoro lì e di continuare ad andare a scuola; ma non mi restava alternativa: avevo finito i quattrini, dovetti accettare.

“Un minibus mi venne a prendere alla pensione e mi portò nei dintorni di Sartrouville a nord-est di Parigi, in una casa isolata. Nella casa c’era tutto il necessario per vivere. La condividevo durante la settimana con Perrié, un parigino sulla cinquantina, dalle buone maniere, simpatico, amichevole.

“Di fianco alla casa c’era un enorme capannone, dentro centinaia di bidoni di poliestere. Il mio compito consisteva nella pulizia del locale e nel mescolare differenti prodotti chimici plasticizzanti per poi darli agli specialisti che li avrebbero utilizzati nei cantieri.

“Una volta imparate tutte le sottigliezze e i trucchi del mestiere e conosciuto padroni e servi della compagnia, ripresi a studiare da solo con testi scolastici, dizionari, saggi, racconti brevi. Il lavoro cominciava alle otto del mattino, ma io mi alzavo alle cinque e studiavo fino alle sette e mezzo. Ero troppo stanco per farlo la sera. Imparavo a memoria interi brani di letteratura e regole grammaticali.

“Il lavoro era di una banalità e ripetitività allucinanti. Non richiedeva nemmeno l’uno per cento della mia materia grigia. Solo sforzo fisico, nient’altro. Il mio cervello era sempre impegnato con idee, parole nuove, pronuncia. Il mio modo di imparare mi ricordava quando studiavo mentre pascolavo le pecore, mentre andavo a prendere l’acqua alla fontana.

“Perrié, il parigino, di libri, di grammatica, di letteratura, non ne sapeva molto, però parlava un ottimo francese e gli piaceva giocare al maestro. Proprio quello che volevo. Lo sorprendevo con parole inusitate che lui diceva di non ricordare di aver sentito, ma non gli dispiaceva d’insegnarmene la pronuncia. Ogni giorno scrivevo su pezzi di carta intere liste di parole che lui mi leggeva a voce alta nell’ora di pranzo o durante il lavoro, quando si poteva. Paziente, amabile, educato, me le ripeteva fino a quando non le imparavo bene. Perrié era diventato il mio maestro.

“Si assentava qualche volta durante la settimana e non era mai lì il sabato e la domenica, e questo mi dispiaceva. Mi ero affezionato a lui, non solo perché mi aiutava nello studio, ma anche e soprattutto perché era una bravissima persona.

“Quando rimanevo solo e nel capannone tutto era in ordine, non facevo che studiare.

“Naturalmente dovevo pure uscire a comprarmi il necessario per mangiare, ma lo facevo quando il cervello era saturo. Uscire, allora, vedere gente, andare nei negozi, acquistare cose, scambiare qualche parola con qualcuno: un vero piacere.

“La situazione cambiò quando conobbi Spaîte. Era uno dei padroni della ditta. Slanciato, ben vestito, baffi e capelli neri e ben curati, occhi svelti, disinvolto. Aveva una buona parlantina, uno stile affascinante.

“Era venuto un pomeriggio. Non appena mi vide, mi squadrò, mi girò intorno come se fossi stato una bestia da stimare. Sbirciando Perrié, andò da lui e si misero a conversare. Era più interessato a fargli domande su di me che di sapere come andava il lavoro.

“Una volta partito Spaîte, Perrié si avvicinò a me e balbettò qualcosa come: “Se tutti i padroni fossero come  lui, dovremmo trovarci presto un altro lavoro.”

“Spaîte non tarda a rifarsi vivo. Un sabato, poco prima di mezzogiorno, la sua Citroën si ferma davanti al capannone. È fine novembre, un cielo tetro e triste sembra posarsi sulla testa, pioviggina, fa freddo. È ben coperto, lui. Porta un cappotto grigioscuro, bellissimo. Ha un passo leggero, elegante, pare che non si muova, invece si avvicina a me, fa:

“Anche quando non c’è nessuno a controllarti, lavori?”

“Io sì,” rispondo.

“Sei furbo. Ti sei messo a lavorare non appena mi hai visto!”

“Se la pensa così, allora è così”, dico.

“Oltre che furbo, sei anche spiritoso,” mi fa sorridendo.

“Cominciò così il mio ‘rapporto’ con Spaîte. Aveva molti anni più di me ed era uno dei miei capi. Nonostante ciò, non lo considerai mai come tale. Parlavo con lui come se fosse stato della mia età e del mio ceto sociale. Diventammo amici. Veniva a trovarmi quando non c’era Perrié, dapprima raramente e in seguito più di frequente, specialmente durante il fine settimana.

“Così Gérard, questo era il suo nome, che era un omosessuale, iniziò a flirtare con me. Fino a un certo punto lo lasciavo fare, dato che ero indifferente a quello che lui provava. In cambio mi aiutava con lo studio, mi portava libri, nuovi dizionari, mi parlava di Parigi. Ovviamente di tutto questo non dovevo parlare con nessuno.

“Un sabato, dopo il lavoro, venne a prendermi per portarmi a casa sua, a Parigi, vicino al Bois de Boulogne. Come ci misi piede, rimasi stupito. Nei miei sogni più pazzi, non avevo mai immaginato che un appartamento potesse essere tanto bello. C’erano mobili stupendi, una biblioteca, dipinti, sculture, un bagno con le pareti di vetro: una meraviglia! Disse che viveva solo, anche se aveva amici, e che qualche volta veniva sua madre a trovarlo. Aggiunse che, quando ero da lui, se fosse arrivato qualcuno dei suoi amici, per lui io sarei stato uno studente e non il suo magazziniere!

“Gérard non mi sorprese quando mi disse che in casa sua io ero uno studente. Mi ero reso già conto che, chi più chi meno, eravamo tutti dei dottor Jekyll e dei mister Hyde.

“In ogni modo, vedevo, con l’aiuto di Gérard, uno spiraglio di luce: andare a Parigi, trovarmi un posto di lavoro là e ricominciare ad andare a scuola.

“Andò tutto diversamente. Il mio flirt con lui aveva i suoi limiti, il fine di Gérard era di superarli.

“Trascorremmo parecchi weekend insieme. Stavamo sempre a casa per timore che, se fossimo usciti, qualcuno avrebbe potuto vederci.

“Una sera arrivò un suo amico, un altro omosessuale. Era un cantante d’opera, più giovane di lui e più vecchio di me. Si chiamava Rodrigo, veniva dal Messico. Era alto, fascinoso, parlava bene il francese. Mentre Gérard preparava da mangiare in cucina, Rodrigo si sedette sul divano vicino a me e prendendomi una mano, disse:

“Io sono come un albero, seducente, forte, che dà tanti frutti saporosi. Tutto di quest’albero è fertile, eccetto, ahimè, un ramo che è ammalato e io non so come curarlo. Vuoi essere il mio dottore, aiutare questo mio povero ramo a guarire?”

“La tua malattia non mi riguarda,” gli risposi un po’ maldestro ma deciso e liberando la mia mano dalla sua.

“Peccato!” fece lui guardandomi negli occhi.

“Quella sera, dopo aver cenato, andammo a sederci tutt’e tre sul divano. Non so come, ma mi trovai in mezzo a loro. Il disagio fu totale e immediato. Iniziai ad aver caldo, a essere infastidito dal loro alito, dalle loro mani, a star letteralmente male. Mi svincolai da quei due polipi, mi alzai e feci appena in tempo a raggiungere il bagno e vomitare. Restai lì a lungo, disfatto, ferito nel mio orgoglio. C’erano leggi in me che mi condizionavano a tal punto che solo con la violenza avrei potuto infrangere. Non volevo arrivare a questo. Mi sentivo scoppiare. Non volevo uscire più dal bagno, ma non sopportavo di vedere la mia faccia dappertutto su quelle lastre di vetro. Ero profondamente disgustato di me stesso.

“Lo so, non avrei dovuto accettare la compagnia di Gérard, ma chi, in condizioni disperate come le mie, può mantenere un comportamento sempre ineccepibile?

“Quando mi decisi a uscire dal bagno, li trovai nudi. Gérard aveva le mani appoggiate sul tavolino, il culo proteso in alto. Rodrigo se lo stava facendo in quella posizione. Li guardai. Loro fecero altrettanto con me. Poi m’ignorarono. Continuarono come se non esistessi. Erano coperti di sudore, respiravano affannosamente, grugnivano, godevano.

“Quella vista fu più forte di me. Fui scosso da un sentimento di repulsione, capii che dovevo troncare subito quella relazione con Gérard. Uscii risoluto.

“L’aria fresca della notte mi fece bene. Ritrovai la mia forza, il mio spirito. Era sabato sera e nelle strade della capitale c’era un continuo viavai di gente allegra. Odori, profumi olezzavano ovunque. Respiravo a pieni polmoni, godevo della libertà di muovermi per le vie a mia scelta e piacere. Guardavo le belle ragazze, le seguivo per un po’, poi mollavo.

“Entrai in un bar per un caffè. Quando uscii ripresi a camminare e lo feci per ore senza avvertire la stanchezza. Andavo dove mi portavano i piedi, col cuore che pulsava per la gioia di vivere e il piacere di sentirmi libero.

“Verso l’una, chiesi a qualcuno come potevo andare a Sartrouville e la risposta fu che avrei dovuto aspettare fino al mattino. Così feci. Trascorsi quella notte girovagando per Parigi.

“Dormii tutto il resto di quel giorno. La sera, verso le sei, arrivò Gérard. Gli dissi che non volevo più vederlo. E lui di rimando:

“Proprio adesso che intendevo aiutarti?”

“Come?”

“Venendo ad abitare a casa mia, tanto per cominciare. Una volta lì ti aiuterò a cercarti un lavoro part-time a Parigi, così potrai studiare. Non è questo quello che vuoi?”

“E in cambio?”

“Niente. Sono convinto che, una volta trasferitoti a casa mia, la nostra amicizia crescerà, diverrà più intima, più bella.”

“Dici sul serio?” dissi io incredulo.

“Non sono mai stato tanto serio in vita mia.”

“Nonostante la decisione di farla finita con lui, nonostante i miei dubbi, la sua proposta si rivelò molto allettante. Non me ne fregava un accidente chi egli fosse e tanto meno di quello che provavo per la sua omosessualità. Gérard era quello che era ed io quello che ero, però tra noi due ero io ad avere bisogno di lui e non lui di me. Sentivo che dovevo approfittare di ogni chance, di ogni possibilità che mi si presentasse in favore dello studio per investire in esso tutte le mie energie. Non ero più un ragazzo e la vita non dura un’eternità. Accettai la sua proposta.

“Quella stessa sera mi suggerì, nel caso fossi convinto di volere andare ad abitare lì con lui, di dire a Perrié che avrei lasciato il lavoro entro una settimana.

“Così feci.

“Perrié rimase sorpreso a quella mia improvvisa decisione. Disse che comunque ero giovane e che avrei trovato facilmente un altro lavoro. Quanto a me, mi spiaceva molto lasciarlo, ma la mia vita doveva andare avanti.

“Mi presentai a casa di Gérard il sabato seguente, come convenuto. Non era venuto a prendermi, non era nemmeno a casa. Aspettai. Non arrivava. Decisi di andare a farmi una passeggiata nei dintorni. Lasciai la valigetta davanti alla porta del suo appartamento. Uscii. Aveva appena smesso di piovere, l’aria sapeva di bagnato. Mentre camminavo pensavo che, se tutto fosse andato come lui aveva detto, sarebbe stato un sogno: una bella casa in cui vivere, un lavoro part-time e poi a scuola!

“Questo sogno, però, in men che non si dica, si stava trasformando in un incubo.

“Quando tornai indietro, Gérard non c’era ancora. Eppure i nostri accordi erano per quel sabato. Non capivo. Cosa gli era successo? In quel mentre, mi vide la portinaia e mi chiese chi cercavo. Glielo dissi. Rispose dicendo che il signor Spaîte era partito per gli Stati Uniti e non sarebbe ritornato prima di un mese!”

“Che figlio di puttana questo Spaîte!” dice Amedeo che non può più stare zitto e neppure seduto. Si alza, accende una sigaretta, aspira il fumo con gusto, fa un paio di volte il giro della tavola. Agguanta una melanzana ripiena, l’azzanna, l’impasta col sapore della sigaretta. Ci beve sopra.

Nicolò non si muove. Finisce di mangiare una polpetta. Aspetta che il cugino torni a sedersi. Quando lo fa, dice:

“Forse Gérard, se ci pensi, non aveva poi tutti i torti a comportarsi da stronzo nei miei riguardi. Malgrado ciò, se l’avessi incontrato per strada in quei giorni, l’avrei, non so come, ma l’avrei pestato. Era stato falso e crudele. Una canaglia. Lo odiavo. Mi ci volle del tempo per calmare la bestia che lui aveva scatenato in me.”

Amedeo riempie il bicchiere di vino di Nicolò senza dimenticare il suo. Poi dice: “Bevi, cugino.”

Nicolò lo guarda. Prende il bicchiere, fa:

“Santé!”

“Cheers!”

“Imparerai presto l’inglese, se continui ad usare paroline come queste,” dice Nicolò con un pizzico d’ironia.

“Non dimenticare che l’ho fatto a scuola, insieme al francese, per alcuni anni.”

“Non mi hai mai detto quello che facevi a scuola.”

“Non me l’hai mai chiesto.”

“È vero. A proposito, fra qualche giorno potrai praticare il tuo inglese con tre ragazze.”

“Cosa?” fa Amedeo sorpreso. “Di che diavolo stai parlando adesso?”

“Aspetto delle amiche da un giorno all’altro.”

“Amiche tue, qui?”

“Sì, qui.”

“E da dove vengono?”

“Dall’Australia.”

“Le ospiterai a casa tua?”

“Certo.”

“Sconvolgerai tutti qui a Calvario.”

“Non m’importa.”

“Lo penso anch’io che non t’importa. Hai perso ogni rispetto per le nostre usanze.”

“Anche per altro.”

“Infatti. Ma torniamo a bomba. Delle ragazze parleremo poi. Cos’è successo dopo che Gérard ti ha piantato?”

“Col rospo in gola tornai alla lercia pensione vicino alla Gare du Nord. Fortunatamente avevo risparmiato un po’ di soldi e migliorato il mio francese. Mi trovai un lavoro, un altro lavoro! Questa volta, però, nella grande città e m’iscrissi a parecchi corsi serali dell’Alliance Française.

“Lì incontrai studenti del mondo intero e di tutti i tipi. C’erano laureati, diplomati, lavoratori. Io ero sempre l’ultimo della classe. Non m’importava. M’ero abituato. Sapevo che dovevo perseverare, essere duro e lo facevo con grinta. Mi succedeva tuttavia di ritornare a casa pieno di stizza e frustrazione.

“I professori, una volta scoperto il mio basso livello di educazione, le mie lacune, divenivano tolleranti nei miei confronti, capivano la mia ignoranza. In breve, gli facevo pena. E questo m’imbestialiva ancora di più, perché era proprio quello che non sopportavo.

“Io che dovevo alzarmi alle cinque e mezzo del mattino per andare a lavorare, io che sgobbavo come un mulo otto dieci ore al giorno, io che mi facevo da mangiare, mi lavavo i panni, mi tenevo in ordine e andavo a letto all’una, alle due di notte, io fargli pena! Avrei voluto vedere quelli che non avevano altro nella vita che lo studio, come se la sarebbero cavata al mio posto! Ma lasciamo perdere.

“Ascolta ora, perché questa ti piacerà. Un giorno mi accorsi che avevo messo da parte un discreto gruzzoletto. Pensai che era giunto il momento di permettermi qualche mese di pieno studio. Mi licenziai dal lavoro e cercai di concentrarmi sui testi di letteratura, l’osso duro di quel tempo. E guarda che roba, nonostante potessi dedicarmi tutto il giorno alla lettura, allo studio, nonostante ciò non riuscivo a concentrarmi. Avevo paura di restare senza denaro oltre che sentirmi in colpa, in colpa perché non sfacchinavo! Capii, allora, capii che il sistema, il ‘sistema’, come aveva fatto con Heino e zia Carmelina, così con me: mi aveva incastrato, condizionato all’indegna routine della sopravvivenza. Riuscivo a imparare di più quando lavoravo e studiavo che quando avevo tutto il tempo a mia disposizione!

“Quella volta realizzai quanto la mia battaglia fosse difficile: dovevo battermi non solo per sostenere economicamente la mia educazione, ma anche per vincere il meschino condizionamento dell’operaio che era già attecchito in me. Il sistema mi aveva reso schiavo del suo operato.

“Malgrado gli ostacoli, qualche progresso l’avevo fatto. La fame di conoscenza era più forte di ogni altra cosa e mi spingeva a qualsiasi sacrificio pur di poter studiare. La mia intelligenza, la mia volontà, tutte le mie facoltà mentali, quasi atrofizzate da quando ero stato strappato via dalla scuola, si erano risvegliate a forza di scintille urti bombardamenti, lotte accanite e si erano risvegliate a tal punto che mi riposavo di più studiando e imparando che dormendo. Il mio cervello, questa macchina complessa e meravigliosa, ancora una volta si era messo a lavorare. Così incominciavo ad affrontare gli esami, sempre più preparato; incominciavo a ottenere buoni voti, ad essere all’altezza della situazione.

“Che soddisfazione nel vedermi pronto e ricettivo ad ogni argomento! Imparavo imparavo imparavo e sempre con più facilità.

“Quando superai gli esami di maturità, la gioia mi rapì per giorni e giorni. Esplodevo di felicità. Non avevo mai provato tanta soddisfazione in vita mia.

“Più tardi, dopo un esame di ammissione, mi accettarono alla Sorbonne e venni a contatto con molti studenti seri motivati ambiziosi. Alcuni studiavano anche lingue. Iniziai l’inglese. Non potevo dedicargli il tempo che avrei voluto, ma apprendevo pur sempre qualcosa, ed era questo l’importante. Mi capitava di aprire un libro e di non chiuderlo fino a quando non l’avevo finito, ero arrivato al punto in cui facevo poca distinzione tra giorno e notte.

“Studia o muori” era il motto.

“Vedi, Amedeo, non vorrei sembrarti un fanatico dello studio per lo studio, perché le cose non stanno così. È che io, gradualmente, mi ero convinto o, piuttosto, ho scoperto, che era la conoscenza e non i soldi e tanto meno la bellezza fisica a saziare la mia anima. Lo studio mi appassionava, era diventato la mia droga, la mia ragion d’essere. Tutte le volte che risparmiavo qualche lira, la spendevo in libri, corsi, lezioni private. Le uniche cose, almeno così sembrava a me, che mi facevano crescere. Leggevo sempre: quando mangiavo, quando andavo al gabinetto, nelle pause dei corsi, dei film e sul lavoro mi portavo in tasca degli appunti che guardavo tutte le volte che potevo. Ero ingordo di conoscenza.”

“Ma nella tua vita non c’era altro oltre lo studio?” chiede Amedeo.

“Aspetta! Mi hai preceduto. C’era dell’altro eccome, c’era anche il lavoro, come sai, e che lavoro! Ne avevo fatti così tanti di lavori che infine non mi facevano più paura. La parte più dura era il dover lavorare con gente non istruita, dal comportamento rozzo e aggressivo. Il continuo contatto con un’attività manovale banale brutale, fatta del bisogno, non ingentilisce. Le creature con cui lavoravo si trascinavano dietro ora dopo ora il dramma della vita, che era il dramma della povertà economica e culturale. E io, non avendo una specializzazione e dovendo sgobbarci insieme, trovavo difficile non farmi travolgere da quel loro mondo, un mondo che ormai conoscevo molto bene. A volte, malgrado la mia comprensione e simpatia, mi mandava in bestia, mi spingeva anche all’odio per quei miserabili. La sera, all’università, cercavo con tutte le mie forze di migliorarmi per poi, di giorno, trovarmi una volta ancora unto e bisunto a fare un lavoro che detestavo e in compagnia di esseri più ignoranti e disgraziati di me.

“Tra questi due mondi, comunque, quello del lavoro e quello dello studio, ce n’era un altro: quello delle donne.

“Dopo quella volta che ero finito per caso in una sala da ballo e avevo incontrato la Brutta, avevo preso l’abitudine di andarci. Avevo persino seguito un corso di ballo. A Parigi conoscevo molti dancing e, tutte le volte che ci andavo, uscivo sempre con una donna. Ero arrivato al punto che bastava solo che mi presentassi all’entrata d’un dancing per trovarmi una donna con cui andare a letto, trascorrere la notte. Le donne mi stimolavano, m’ingentilivano, m’illuminavano, perché mi nutrivano del meglio della vita: l’amore. Erano diventate la mia poesia, un conforto, un serbatoio dove io svuotavo la mia anima, la mia sensualità, le mie esperienze, la mia filosofia spicciola, ed esse, generose e comprensive, mi accoglievano sempre con un cuore nobile e generoso.

“Ricordo un episodio con una studentessa italiana, Marina, che non era finito bene. Non ho mai saputo da che parte dell’Italia fosse. Me l’aveva detto, ma io non conoscevo tutte le città della penisola, tanto meno le regioni. Non volevo comunque rivelarle la mia ignoranza sul Belpaese, quindi non le chiesi spiegazioni. Inoltre, era una ragazza orgogliosa, classista e se avesse saputo chi ero veramente, non mi avrebbe più neppure guardato in faccia.

“Beh, come ti dicevo, in classe non ero più l’ultimo, ero migliorato molto. E non solo. Preparavo i miei esami con sicurezza, prendevo ottimi voti.

“Marina, che durante il giorno lavorava all’ambasciata e la sera frequentava lo stesso mio corso alla Sorbonne, non solo mi scambiò per un suo pari, ma mi ammirava anche. E una volta che seppe che ero italiano, cominciò a farmi qualche sorrisetto, specialmente quando i nostri occhi s’incontravano e, via via, s’incontravano sempre più di frequente.

“Iniziammo a cenare insieme alla mensa degli studenti. Parlavamo in francese e quando lei diceva qualcosa in italiano, le rispondevo in francese sostenendo che ero in Francia per studiare e per parlare quella lingua. Approvò: niente italiano. Ciò mi venne comodo, perché, come sai, io l’italiano non lo sapevo. Lei questo non lo scoprì mai. Non era curiosa della mia vita. Non mi faceva domande personali.

“Così, gradualmente, un flirt attaccaticcio si fece strada tra noi. Capii che a lei ciò non bastava, voleva di più. Anch’io.

“In quel periodo abitavo in una pensione dove era proibito portare gente e Marina aveva una stanza presso una famiglia, quindi non c’era modo né di portarla nella mia camera né di andare da lei. Certo, avrei potuto suggerirle di andare in albergo, ma non lo feci.

“Un sabato pomeriggio le telefonai. Di solito rispondeva la proprietaria dell’appartamento, qualche volta il marito, mai Marina. Quella volta invece fu lei. Era sola in casa.

“Sola?”

“Sì.”

“Come mai?”

“Sono andati via.”

“Perché non me l’hai detto?”

“Non lo sapevo. Me l’hanno detto all’ultimo minuto per non darmi il tempo di organizzare incontri in casa loro.”

“La camera era tappezzata con motivi floreali. C’era un letto singolo, con due comodini ai lati. Su uno c’era un vaso con delle camelie, sull’altro dei cosmetici, sulla scrivania testi scolastici quaderni penne un diario, la foto d’un giovane, due sedie, una poltroncina in un angolo, uno specchio enorme, un tappeto sul pavimento.

“Marina indossava un vestito leggero che lasciava intravedere le sue forme. A quella vista una passione selvaggia s’impadronì di me. Lei tremava tutta, riuscì a mala pena a dire: “Non farmi male. Vacci piano.” E come potevo! Ero già invaso da un desiderio bestiale.

“Dopo averle scaricato nell’intimo tutta la mia sensualità, divenni cattivo. Le coprii il corpo di baci e morsi. Marina si adattava bene a questa mia violenta agitazione. Anzi, non finiva di gemere piacevolmente, di avere orgasmi.

“Fu quando iniziai a picchiarla duramente che si rese conto che stavo abusando di lei. Reagì, prese a difendersi. Mi chiese se fossi un sadico. Le dissi che mai prima avevo percosso una donna mentre facevo l’amore. Con lei però era diverso, sentivo un piacere morboso nel percuoterla.

“Ed era così. Da un momento all’altro non ero più io. Avevo perso la testa. Il mio pene, ad un certo punto, era rimasto eretto sì, ma non mi dava più soddisfazione, ne provavo solo nel picchiarla. Era l’aggressione irosa e incontrollabile che infuriava in me. La caricai di botte. Lei cercava di contraccambiarle.

“Un mio schiaffo deciso la colpì in piena faccia. Rimase stordita per qualche minuto, poi la sua bocca si riempì di sangue. Ciò non mi placò, anzi mi rese ancora più bestia.

“A questo mio nuovo attacco di violenza, alla vista del sangue, Marina si spaventò, gridò, cercò di buttarmi via dal letto. Non ci riuscì. La minacciai di provocare uno scandalo in tutto l’edificio se non la smetteva di strillare. Si calmò, lo scandalo non lo voleva. Continuava a dibattersi con tacita ostilità.

“Quando avvertii che le forze le venivano a mancare, che il suo corpo si stava afflosciando, le aprii le gambe, le braccia e cominciai, anche se non provavo più godimento, a penetrarla di nuovo come un forsennato. Ad un certo punto non sapevo più se fosse morta o viva, non la sentivo più. La osservai. Ci presi gusto nel vederla sotto di me così vinta, umiliata, distrutta.

“Poi, improvvisamente, ci fu un mutamento in me. Qualcosa si accese. Un’illuminazione! Divenni cosciente. Realizzai. Vidi. Capii. Capii capii capii cos’era successo! La mia ira si acquietò immediatamente e la causa di quel mio comportamento brutale e indegno nei confronti di Marina saltò fuori: non era lei che giaceva vinta sotto di me, ma tutto un paese!

“Allora, mentre quel pazzo furore si andava attenuando e la vera figura del colpevole affiorava, io mi sentivo male, disgustato, terrorizzato. Avevo paura di me stesso. Non c’erano scusanti. Quando infine non ebbi più dubbi sul mio folle comportamento, restai per un momento immobile e il sangue nelle mie vene, che un minuto prima sprizzava con impeto in tutto il mio corpo, sembrò congelarsi.

“Era vero che i miei sentimenti nei confronti del paese natale non erano positivi, non c’era ragione che lo fossero. Come avrebbero potuto esserlo dopo tutto quello che avevo vissuto lì? E la mia famiglia? Più aprivo gli occhi, più mi apparivano chiari i veri assassini della mia infanzia, della mia adolescenza, della mia vita!

“Marina, mentre io mi sentivo sempre più scosso dalla mia bestialità nei suoi confronti, si mosse, si riprese, avvertì questo cambiamento in me. Qualche istante dopo la sua mano sfiorava dolcemente il mio viso. Si mise a guardarmi con occhi pieni di interrogativi, col viso madido di lacrime che scorrevano sul sangue già coagulato.

“La guardai anch’io. Il suo aspetto mi mozzava il fiato. Mi alzai di scatto, mi vestii in fretta e furia e, quando stavo per aprire la porta per andarmene, la sua voce mi trattenne.

“Non avrei mai creduto che tu …”

“Neanch’io!” la interruppi e, chiudendo la porta dietro di me, uscii.

“Quel sabato sera fui molto infelice. Non smettevo di chiedermi come avevo potuto arrivare fino a quel punto. Mi conoscevo così poco? E comunque Marina non aveva nessuna colpa. Quale colpa avrebbe potuto avere lei? C’era una sola spiegazione: aveva dovuto pagare per quelli che hanno cervello solo per affondare il coltello lì dove la piaga è aperta. Nelle profondità oscure del mio essere, sentivo, fortemente sentivo, il torto che le avevo fatto. Solo che non volevo accettarlo, pensarci, coinvolgermi in inutili sentimentalismi.

“Quella stessa sera sentii rumoreggiare in me un cupo rancore. Capii, definitivamente capii, che avevo perso quell’innocenza ingenua che mi aveva accompagnato per tanto tempo e che il mondo, per me, senza più via di ritorno, era drammaticamente cambiato. Mi convincevo sempre di più che la mia linea di condotta era dovuta all’insensatezza di quelli che avrebbero dovuto essere sensati, di quelli che avrebbero dovuto fare di me un altro uomo. Pensai che il mio era un dramma sociale e non personale.

“La mia avventura con Marina finì lì, con quella terribile esperienza. Non andai più al corso che frequentavo insieme a lei, tanto meno cercai di rivederla.”

Nicolò a questo punto s’interrompe. Fa una pausa. Si alza. Guarda il soffitto. Incontra gli occhi di Amedeo.

“Tu sei acido,” dice. “È vero che narri le cose con molta forza, ma è anche vero che c’è astio, a volte, nel tuo modo di farlo.”

“Io non sono un letterato, per fortuna! Cerco di raccontare le cose come le ho vissute e nient’altro,” ribatte Nicolò.

“Ma almeno …”

“Niente almeno,” tronca l’altro che, chissà per quale ragione, era divenuto di colpo di cattivo umore. “Tu stesso all’inizio mi hai chiesto di restare più vicino ai fatti che alla fantasia ed è proprio quello che sto cercando di fare. D’accordo?”

“Sì, ma …”

“Niente ma,” tronca di nuovo lui. “I ‘ma’ vanno bene per quelli che fanno fiction, non per me. I signori della fiction possono fare e disfare un’azione un milione di volte, perché, appunto, fanno fiction, scrivono fiction. Insomma, roba inventata. Il racconto della mia vita non è fiction, è esperienza vissuta, un fatto accaduto, e un fatto accaduto non lo si può fare e disfare a proprio comodo. Certo puoi scervellarti chiedendoti perché hai fatto quello che hai fatto, ma questo non ti permette di rifarlo.

“Lascia, please, lascia che ti racconti le cose per come io le ho vissute e poi, una volta che te le ho raccontate, pensa pure quello che diavolo vuoi.”

“Sì, ma …”

“Niente ma, Amedeo!”

“Non ti riconosco più.”

“Neppure io mi riconosco a volte. Vuoi che continui a raccontare?”

“Certo!”

“Allora devi lasciarmelo fare, okay?”

“Cercherò di non interromperti.”

“Grazie,” fa Nicolò e continua.

“Ora dovrò parlarti di cose che non sono state soltanto difficili da vivere, ma che saranno altrettanto difficili da raccontare. Spero di essere all’altezza di farlo.”

“Racconta. Qui rumori non ce ne sono, né bambini che disturbano. Abbiamo ancora vino e cibo sulla tavola. Racconta, dunque. Prosegui con la tua storia,” fa Amedeo.

Nicolò lo guarda, storce la bocca, riprende a narrare.

“Avevo sì progredito e anche tanto, col mio studio, però a scapito della mia salute e del mio lavoro.

“Mi ero fatto una pessima reputazione anche in una città così grande come Parigi. Mi diveniva quasi impossibile trovare un impiego. Resistevo pochissimo tempo – un giorno, una settimana, un mese massimo – e poi mi licenziavo. I nuovi datori di lavoro volevano spiegazioni sul perché rimanevo così poco in un posto e io di spiegazioni non ne avevo. Sì, certo, di spiegazioni avrei potuto dargliene tante, ma sicuramente a loro non sarebbero piaciute.

“Un giorno mi ero presentato in un posto dove si doveva lavorare col martello pneumatico per abbattere i muri d’una vecchia caserma. Un lavoro duro e pericoloso. Non era il primo. Mi era già capitato e più d’una volta di fare lavori rischiosi, duri, e li facevo per guadagnare più soldi. Facendo questi lavori, guadagnavo più soldi in tre mesi che non in due anni in una fabbrica. Firmavo anche dei contratti in cui c’era scritto che, se mi fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe stata mia. Erano lavori pericolosissimi, e lo sapevo, ma si guadagnavano molti soldi in brevissimo tempo. Accettavo il rischio.

“Mi presentai, dunque, all’ufficio assunzioni. Un tipo massiccio, con la testa piccola e rotonda come una palla, come mi vide, mi squadrò a lungo. Mi venne naturale mostrargli i denti.”

“Questi li ho visti,” disse. “Niente male. Vorrei vedere anche le tue mani.”

“Gliele mostrai.”

“Le guardò, le toccò, palpò, poi fece: “Sono fatte per accarezzare la vagina delle donne, non per lavorare con un martello pneumatico.”

“Mettimi alla prova,” gli dissi.

“Conosco il risultato,” rispose. “Dopo un giorno di lavoro col martello pneumatico, sempre se ce la farai a resistere un giorno, le tue belle mani saranno piene di piaghe, di sangue e io, il giorno dopo dovrò trovarmene un altro, mentre tu andrai in infortunio almeno per una settimana.”

“Lavorerò coi guanti. Vedrai che ce la farò.”

“Non ho lavoro per te.”

“Non vuoi proprio farmi provare?”

Scosse la testa, gridò: “Avanti il prossimo!”

“Avevo finito per non trovare più lavoro e finito anche i soldi. Mangiavo una volta al giorno e non di rado mi capitava di non prender cibo per ventiquattr’ore. Mi sentivo fiacco, disperato, uno straccio. Non sapevo più dove sbattere la testa. Ero arrivato al punto di farla finita. La fame è brutta, cugino, la fame è cieca, la fame spinge a tutto, anche a rubare, ammazzare.

“Infatti, avevo incominciato a rubare, a rovistare nei cestini della spazzatura, a dormire dove mi capitava.

“Un giorno, in un momento di totale avvilimento, mi sedetti in un angolo e allungai la mano.

“Ho ripetuto questa esperienza per un po’. Andavo a mettermi sempre al solito posto. Là, seduto per terra, con un cartellino davanti a me con la scritta: HO FAME.

“Un tipo, una volta, si fermò, mi guardò, disse: “Sei giovane, perché, invece di chiedere l’elemosina, non vai a lavorare? Non ho pietà per quelli come te.”

“Ero diventato un relitto sociale, un barbone, uno che sporca la strada con la sua presenza.

“Durante quei giorni di agonia, continuavo lo stesso, a forza di volontà, a trascinarmi alle lezioni, però, ahimè, la fame, l’umiliazione, la debolezza, non aguzzano il cervello, lo infiacchiscono, lo nullificano e io, in quei tempi, mi sentivo un nulla.

“Questo doloroso assaggio da barbone durò quel che durò, il tempo per farmi capire che fra me e quelli che mangiavano c’era un abisso invalicabile: due mondi, due esperienze.

“La situazione, ad un certo punto, si fece ancora più drammatica, insostenibile. Avevo ormai venduto libri abiti orologio, una macchina fotografica, non avevo più niente.

“Anche se non dormivo tutte le notti nella mia squallida camera, l’avevo ancora, e questo nonostante non avessi pagato la pigione da parecchie settimane. Il proprietario comunque mi diede un ultimatum. Dovevo fare qualcosa, dovevo darmi una strigliata, raccogliere tutte le mie forze per tirarmi fuori dal buco nero in cui mi ero cacciato.

“Dopo aver letto l’annuncio su di un giornale che avevo preso in un bidone della spazzatura, mi presentai ad un altro di questi lavori pericolosi e duri. Questa volta, fortunatamente, mi accettarono.

“Nel centro della grande città si stava costruendo una torre che avrebbe dovuto eguagliare quella Eiffel. Impiegavano chiunque purché fosse in regola con le carte. Si lavorava notte e giorno, bisognava colare cemento ininterrottamente per l’innalzamento dei muri.

“Il primo mese lo passai con uno scopone in mano a ripulire la strada che i camion sporcavano uscendo dal cantiere, ad accendere il fuoco per riscaldare le gamelle, a ramazzare le baracche. Gli altri lavoratori mi credevano un ruffiano perché quello era uno dei posti migliori per un manovale. E lo era. Sfortunatamente durò poco. Lo diedero a un anziano e io fui mandato sulla torre a spianare cemento.

“La maggior parte della mano d’opera era trasportata in cima all’edificio in una specie di gabbia o nelle benne che usualmente portavano su il cemento. Quelli che avevano paura di salire in quel modo usavano scale interne molto rischiose. In alcuni tratti bisognava passare da una all’altra con l’aiuto di corde dai grossi nodi, come dei Tarzan.

“Io andai su così solo una volta e ci misi un paio d’ore per arrivare in cima. Rimasi bloccato in una di quelle maledette scale. Mi erano venute le vertigini e una paura tremenda sia di montare che di scendere. Dovettero portarmi su legato con una corda. Da quell’episodio in poi mi servivo anch’io della gabbia o delle benne.

“Le prime volte chiudevo gli occhi dalla paura, ma presto imparai ad aprirli, a guardare il panorama che si apriva sotto e intorno a me. Era spettacolare trovarsi su quella torre che s’innalzava ogni giorno di più verso il cielo. La metropoli giaceva ai miei piedi, durante il giorno rumorosa operosa frenetica; la notte annoiata frustrata romantica insonne addormentata criminale ladra. Riuscivo a vedere il palazzo dove abitava Marina, la mia pensione, la Sorbonne. Aveva finito per piacermi quel modo di vedere la capitale francese e, quando salivo con la benna, mi attaccavo con le mani ai bordi e restavo lì con la testa fuori a guardare il panorama; se invece mi toccava di prendere la gabbia, cercavo di mettermi ai lati di modo che la mia vista fosse sempre sgombra.

“In cima alla torre c’era un brulichìo di gente. Gli specialisti, ingegneri architetti geometri capi, erano francesi; ferraioli carpentieri muratori manovali, erano spagnoli marocchini arabi algerini portoghesi jugoslavi italiani. C’erano pochissimi francesi che facevano i lavori pesanti. Li lasciavano agli emigrati.

“Avevo familiarizzato con un veneto, Ilari. Era un simpaticone. Mi porgeva sempre qualcosa di suo nell’ora del pasto che si consumava sulla torre, dentro una baracca.

“Ci stavamo avvicinando a Natale. Era contento Ilari, aveva deciso di andare a trascorrerlo con la famiglia al suo paese. Non ci andò. Una mattina presto, tanto buia che non si vedeva neppure dove si mettevano i piedi, scivolò a più di cinquanta metri di altezza mentre saliva dall’interno. Il suo corpo andò a sbattere da un ponte all’altro su travi putrelle ferri tavole. Quando Ilari raggiunse il suolo, Ilari non c’era più. Ci vollero ore e ore per lavare il sangue che era sprizzato sui muri e raccogliere i resti dell’uomo.

“Ilari aveva fatto in tempo a raccontarmi che da bambino capitava che sua madre chiudesse la sua camera ermeticamente di modo che non filtrasse la luce, facendogli così credere che era notte persino quand’era giorno. Questo stratagemma serviva per non fargli sentire il morso della fame. La cosa, naturalmente, non durava che uno, due giorni, il tempo per i genitori di procurargli un po’ di cibo.

“Sui giornali, di Ilari e della sua orribile morte, nemmeno una parola.

“Era inverno. Vento pioggia neve quasi sempre. Si lavorava con le mani gelate, il corpo intirizzito, col passamontagna. Sembravamo tutti scassinatori, banditi, guerriglieri. Capitava di confonderci gli uni con gli altri. Gli africani si divertivano, sghignazzavano sotto quella stoffa di lana, perché con quegli affari addosso e coi guanti non c’era più distinzione tra i bianchi e i neri.

“Una mattina, mentre mi avviavo verso la gabbia, un tondino di ferro di due centimetri di diametro e lungo quattro metri e mezzo, sfilò via da un fascio che una gru stava tirando su. Cadde perpendicolarmente come una freccia scagliata dall’alto in basso. Prima che qualcuno se ne fosse accorto, aveva inchiodato al suolo uno jugoslavo. L’aveva colpito sul cranio, gli aveva attraversato il corpo piantandosi in terra. Quel disgraziato, infilzato come un pollo allo spiedo, rimase lì, trafitto, con la bocca aperta, con una espressione tra il riso e il grottesco e col sangue che iniziava a colare gocciolando sulla neve che copriva il terreno.

“Restai anch’io impalato lì come lui, con la bocca aperta sotto il passamontagna, realizzando cosa mi sarebbe successo se mi fossi trovato un solo passo più avanti. Lo jugoslavo mi precedeva di pochissimo!

“Guardai ancora e ancora quella sagoma così inchiodata, ne fui traumatizzato, mi sentii male, barcollai, finii a terra privo di sensi.

“Quando mi ripresi, nella baracca dove mi avevano portato, decisi: non sarei andato più sulla torre a spianare cemento. Andai, invece, all’ufficio per licenziarmi e a chiedere quanto mi spettava.

“Il giorno seguente comprai tutti i giornali parigini, come avevo fatto per Ilari. Neppure una parola sullo jugoslavo inchiodato a terra. C’era invece, su Paris Soir, quasi una pagina intera su un cantante che aveva il raffreddore!

“La pensione piena di pulci e di sporcizia dove abitavo non era una delle più care, anzi. Nondimeno fui costretto a cercarmi qualcosa di ancora più economico. Alcuni operai della torre assassina – ormai la chiamavo così -, mi avevano parlato di un posto alla periferia di Parigi. Ci andai.

“Era una vecchia casa squallida a tre piani che doveva essere demolita da un giorno all’altro. Nel frattempo la gestiva un portoghese. Il costo era ridicolo e si capiva il perché. L’aria entrava da tutte le parti, dai vetri rotti, dalle finestre che non chiudevano, dalle porte. In certi punti ci pioveva dentro. E poi era zeppa della solita fauna di emigrati. Si dormiva ovunque: nelle stanze, in cucina, nei corridoi, nei gabinetti, dove si trovava uno spazio libero per stendersi.

“Mi ero arrangiato nell’angolo di una camera che apparteneva a un negro arrestato quello stesso giorno per aver rubato un paio di guanti in un supermercato. A me portarono via tutto in meno di una settimana, mi lasciarono solo i libri e la valigetta. I soldi li tenevo sempre con me, avrebbero dovuto ammazzarmi per prenderseli.

“Non mancava mai la confusione in quella stamberga, di notte e di giorno. Ero continuamente in cerca di un luogo dove non ci fosse gente, per leggere, studiare. Mi facevo spesso trovare nelle stanze altrui. Non si arrabbiavano, dato che non c’era niente da portar via. Divenivano aggressivi solo se uno cercava di portargli via il posto. Allora, tra loro e le bestie, c’era poca differenza. Finirono per affibbiarmi diversi nomignoli:

“Il professore.”

“Lo studente morto di fame.”

“Il mangia carta.”

“Una notte, mentre annaspavo nell’oscurità verso il mio posto, riuscii a vedere che l’angusto corridoio era zeppo di carne dormiente, semisveglia. Per avanzare dovevo camminarci sopra. E:

“Ahi!”

“Merda!”

“Guarda dove metti i piedi, figlio di puttana!”

“Dove ti credi di passeggiare, sugli Champs-Elysées? Fottuto d’uno stronzo!”

“Finalmente arrivai alla camera dove avevo il mio posto, però, come c’era da aspettarsi, era anch’essa tutta gremita.

“Seppi dopo che avevano ripulito un’altra sudicia stamberga per demolirla e noi avevamo ereditato tutti i morti di fame che abitavano lì. Non mi restò che fare come gli altri: dormire dove trovavo posto. Non c’era spazio per stendersi per intero. Mi adagiai in un angolino in posizione fetale, i libri sotto la testa.

“Restai per un momento col respiro sospeso. Poi, come i miei occhi si ambientarono all’oscurità e iniziai a vedere meglio, notai due occhi che mi stavano osservando. Vedevo solo loro, intorno buio pesto. Successivamente potei inquadrare un corpo raggomitolato che si delineava partendo da quei due occhi simili a fari. Mi incuriosirono. Ricambiai lo sguardo. Ci guardammo a lungo. Non so come apparivano i miei occhi a quelli che mi stavano guardando, ma so come questi apparivano a me: due stelle fulgenti.

“Attorno a noi si sentiva gente che russava, diceva parolacce, scoreggiava, beveva, faceva rumori – uno strepitìo a non finire si sollevava da quei corpi: l’inferno dei viventi.

“Qualcosa poco più in basso di quegli occhi che continuavano a fissarmi, si schiarì, divenne avorio, si mise a luccicare. Erano i bei denti bianchi di Gina. Si chiamava così. Capii che mi stava sorridendo. Feci altrettanto.

“Gina era una negra di Johannesburg, una delle tante dannate della terra. Quando al mattino la vedo tutta intera, rimango incantato. Dal suo corpo si staccano due bellissime gambe lunghe e affusolate. I suoi occhi sono tutti bellezza e i suoi denti tutti grazia; insieme formano un’arma micidiale. Ha un aspetto severo, ma questo non diminuisce la sua femminilità, anzi la rende più attraente. Non parla una parola di francese, soltanto l’inglese. Faccio fatica a capirla, a seguire il suo pensiero. Riesco a comprendere, dopo essermi fatto raccontare più volte la storia, che una sera a Johannesburg era andata in un dancing frequentato da bianchi. La cacciano con le buone per due volte. La terza la riempiono di botte e poi la buttano sulla strada. La notte seguente quel locale salta in aria con tutto il biancume che si trova dentro.

“La polizia la cerca. Sfugge due volte alle grinfie dei poliziotti, ma questi non le danno tregua. L’incalzano dappertutto, sembra che annusino le sue tracce. Deve scappare, deve lasciare la famiglia, lo studio, tutto e andarsene via dal suo paese. Finisce clandestinamente in Francia, prima a Marsiglia, poi a Nizza, infine a Parigi.

“Gina mi piace. Quel suo aspetto, quella sua bellezza selvatica, quella sua maniera di dire cento volte la stessa cosa senza stancarsi, senza dare segni di noia, m’incuriosiscono, mi catturano, mi conquistano. Più la scopro, più l’ammiro, la frequento, m’innamoro. Quel suo diabolico sorriso bianco-nero fa colpo su di me ogni qual volta la sua bocca si schiude. In breve tempo Gina diviene la mia passione, la mia vita, il mio tutto.

“Non ho e non riesco a trovare lavoro. Va bene così per una volta. Passiamo molte ore insieme. Ci raccontiamo, solidarizziamo, innamoriamo l’un dell’altro scoprendo sempre più affinità e sentimenti comuni.

“Una sera me la porto in giro per Parigi. L’affascinante città non sembra sorprenderla più di tanto. Si muove disinvolta, come se fosse nata là. Alza la testa per guardare quelle luci di lampioni e insegne al neon che le sparano negli occhi. Sorride compiaciuta, dice qualche parola di cui mi sfugge il senso. Camminiamo, ci teniamo per mano. Ogni tanto la tiro a me, la bacio. Lei mi asseconda, mi sorride, mi stringe la mano, mi comunica emozioni forti, mi conquista sempre più. Finiamo in un bar, ci sediamo a un tavolino vicino alla finestra, ordiniamo caffè. Non parliamo, non ne sentiamo il bisogno. Ci guardiamo, ci raccontiamo delle storie in silenzio, giriamo gli occhi intorno a noi: è sempre tutto uno spettacolo.

“Gina è una rivoluzionaria. Mi parla di classe, di politica, di anarchismo, di violenza, della lotta dei negri, di ribellione continua. Sostiene che tutto è violenza e marciume e ingiustizia su questo fottuto pianeta e i negri questo lo sanno più di qualunque altra razza al mondo. Navi vuote approdarono per secoli sulle coste africane per ripartire zeppe di negri che trasportavano nel nuovo mondo come schiavi.

“E questa sarebbe la civiltà dei bianchi!?” diceva sprezzante. La materia è marcia, gli uomini anche; lo spirito è ancora più marcio della materia, altrimenti non creerebbe tanta iniquità. Materia e spirito, spirito e materia sono marci.

“Per Gina il rivoluzionario, il vero rivoluzionario, deve battersi su due fronti: contro la materia putrescente e contro lo spirito barbaro. La lotta è lunga, perpetua; la lotta non ha né passato né futuro, è l’immortale presente.

“Per giorni e giorni mi riempie la testa di queste cose e di storie africane una più orripilante dell’altra. Io l’ascolto, la spingo a parlare e m’accanisco con l’inglese. Gina è la prima persona a cui mi sento legato da qualcosa di profondo, qualcosa che mi scuote dentro, qualcosa che mi accomuna, ci accomuna.

“Passano in fretta i giorni dolci e interessanti insieme a lei. Non penso a trovarmi un lavoro e, per la prima volta, non penso neppure allo studio, vivacchio, anzi vivacchiamo, ma stiamo bene insieme.

“Avverto che le sue idee mi attraggono, mi stimolano, mi dicono qualcosa, mi raccontano d’un mondo di cui mi sento un legittimo figlio. Penso che sono fortunato d’aver incontrato quella perla africana in quel girone infernale.

“Un pomeriggio, mentre stiamo passeggiando sul Boulevard St. Germain, vedo un negro alto e magro correre verso di noi gridando:

“Ginaaa! Ginaaa!”

“Si ferma. Così faccio anch’io. Il tipo ci raggiunge. È tutto ansante. Gina si fa rigida contrariata muta. Aveva appena iniziato a raccontarmi della sua infanzia. Guarda il negro. Sembra chiedergli qualcosa con lo sguardo. Lui scuote la testa. Gina mi guarda, lo guarda. Vorrebbe dire qualcosa, ma non lo fa. Sento che c’è tutta una serie di messaggi silenziosi che si trasmettono. Una storia, la loro, che non conosco, non riesco a decifrare, sono tagliato fuori. Mi sento subito un estraneo. Avverto però che anch’io, da un momento all’altro, avrò la mia parte da fare. Infatti l’uomo nero gira gli occhi su di me. Mi è già antipatico. La loro faccenda non mi riguarda, ma Gina sì. Lui non mi rivolge parola, mi squadra a lungo, si morde le labbra, fa come per andarsene. Invece è un trucco, perché, un attimo dopo, con una mossa brusca e fulminea stacca la mia mano da quella di Gina e, con presunzione e orgoglio smisurati, inizia a tirarla via con sé.

“Non gli do il tempo di fare due passi. Mi lancio contro di lui. Iniziano le botte. Ci picchiamo. Non so chi di noi picchia più forte. Io i suoi pugni non li sento neppure. Continuo a picchiare. I passanti si fermano, guardano, ma non si immischiano. Per quello che riguarda me e il negro essi non esistono.

“Continua la grandine di cazzotti, volano da una parte e dall’altra. Nonostante la mia costituzione indebolita, sento sprigionarsi in me delle forze mai sentite prima di allora. La lotta con il negro prosegue.

“Gina, ad un certo punto, si mette fra di noi, riesce a dividerci. Mette lui da parte, viene da me. I suoi occhi, i suoi incantevoli occhi mi guardano, mi congelano. Dice qualcosa che non capisco, non voglio capire. Non mi lascia scelta. Sento che devo piegarmi. Accetto la sua volontà. E poi, conoscendo di che pasta è fatta, anche se mi fossi ribellato alla sua decisione, non avrei ottenuto niente. Intuisco che tra lei e quel negro c’è una lunga storia, un impegno che li lega alla loro causa. Rimango lì a guardarla. Mi sorride, un sorriso che non ho mai dimenticato. Mi mostra ancora una volta quei suoi denti bianchi tutti grazia, poi si gira risoluta verso l’altro e un momento dopo spariscono tra la folla.

“Gina non ritorna più alla stamberga. La rivedo per caso parecchio tempo dopo e faccio fatica a riconoscerla. È sul metrò, indossa degli stracci, è molto cambiata, è diventata brutta di corpo e di spirito. Tossisce, balbetta parole sconclusionate, si vede che sta male, malissimo, sputa in un fazzoletto sporco un catarro misto a sangue. Mi fa impressione, rimango inorridito. Divido quello che ho con lei. Non la rivedo più.

“Mi ammalo anch’io. Il luogo sporco dove abito, un altro lavoro duro, lo sforzo di volontà per continuare ad andare a scuola e cento altre cose ancora hanno il sopravvento. Il raffreddore, la tosse, la febbre invadono il mio corpo. Assomiglio a Gina. Vado dal dottore. Mi dice che ho una broncopolmonite acuta, che devo smettere di studiare, di lavorare, di sfinirmi, che devo riposarmi per qualche tempo, andare per un paio di settimane in vacanza al mare.

“Riposarmi, vacanza al mare, io, e come posso? E poi chi mai aveva sentito parlare di un lusso simile? Non sapevo neppure cosa volessero dire queste parole. Non facevano parte del mio corredo culturale.

“Prendo le medicine che mi ha prescritto. Non mi aiutano molto. Sto veramente male, mi sento debole, tanto debole, basta un soffio per farmi barcollare, cadere per terra. Per un mese intero sono costretto a restare alla stamberga tossendo, delirando, scomparendo.

“Il portoghese, il boss di quell’inferno vivente, che non si capisce bene se sia una persona buona o cattiva, mi mette in una specie di cameretta che usualmente tiene per sé e di quando in quando mi porta un tè. È un posto stretto e buio, ci si vede solo con la luce accesa, ma è asciutto, non ci sono infiltrazioni, si odono unicamente i rumori che provengono dall’edificio.

“Giorni di vuoto, di disperazione, di spossatezza fisica e cerebrale, di profonda miseria e solitudine. Mi vidi passare gradualmente da una vita attiva energica ad una agonizzante e dolorosa. Non avevo più nessuno da cui andare. Anche le mie donne, le mie belle donne, che avevano fatto così tanto per me, erano scomparse. A nessuna piacevo più. E come potevo piacere conciato com’ero, sempre pieno di problemi e in preda alla disperazione? E poi non volevo mostrarmi a loro in quelle mie umilianti condizioni. Non avrei sopportato la loro pietà.

“Ero rimasto in compagnia del buio, della morte e del portoghese, che mi mostrava un po’ di simpatia, dato che si aspettava di trovarmi stecchito tutte le volte che veniva da me.

“Rimpiansi la casetta di Sartrouville, rimpiansi quel simpaticone di Perrié, quel mio alzarmi presto il mattino, tutto arzillo e pieno di vita per mettermi a studiare. Heino, Carmelina, Spaîte e qualche altro sporco individuo mi divenivano sempre più odiosi. I momenti di rabbia erano tonici, mi davano vigore, ma poi, ahimè! mi sentivo di nuovo debole, sconfitto dal drago, dal male, dall’uomo. Avvertivo che stavo marcendo, proprio come diceva Gina, nel corpo e nello spirito, che stavo letteralmente scomparendo nelle tenebre. Il nulla mi stava annientando. Mi sentivo tagliato fuori dal mondo, solo e abbandonato. Io, lì, in quell’inferno e così mal ridotto!

“Un giorno, mentre mi recavo dal dottore, in un momento di totale smarrimento, pensai di farla finita, di regalare un pasto di misera carne alle ruote della metropolitana parigina. Non vedevo luce innanzi a me, uscivo da un tunnel per entrare in un altro ancora più lungo e più buio. Vivere la vita in questo modo mi appariva indegno e ancora più indegno chiedere l’elemosina.

“Facevo fatica a stare in piedi, ondeggiavo sulla banchina vicino ai binari. Ero deciso. Quella scelta mi sembrava liberatrice, mi toglieva dal mondo in cui ero stato gettato, mi toglieva da quella esistenza penosa e spietata in cui mi trovavo. Dovevo solo aspettare che quella massa di ferro arrivasse per buttarmi sotto il suo fracasso.

“Avevo fatto di tutto per fare qualcosa di valido nella mia vita, ma non c’era stato verso, le lotte da sostenere andavano oltre le mie possibilità economiche e risorse fisiche.

“Sì, certo, conoscendo le ragioni, le cause e il boia della mia penosa esistenza, avrei potuto vendere la pelle a caro prezzo piuttosto che sprecarla così vigliaccamente. Ma non potevo, non ne avevo il coraggio. Non ero tagliato per tali azioni. Non avevo ancora maturato lo spirito giusto.

“Aspettavo invece col fiato sospeso l’arrivo del metrò, ascoltavo il primo brusìo che proveniva dalle vibrazioni dei binari, mi preparavo per il salto finale. Non ti dico il cuore, Amedeo. Non palpitava, ma saltava nel petto tanto batteva, sembrava volesse sfuggire dalla gabbia toracica per rendersi libero dalla volontà, la sua peggior nemica, che voleva annientarlo in quel momento.

“Cercai, nonostante il mio stato emotivo, di concentrare il pensiero in qualche corsa sfrenata e felice che facevo da bambino. Volevo chiudere la partita con un’immagine dell’infanzia. Magari una di quelle in cui c’ero io, la natura e le mie bestie. Mi preparavo. Mi ero portato proprio dove il metrò sbuca come un proiettile sulla banchina.

“Notai che, vicino a me, si era messo un tipo. Fingeva di leggere il giornale, ma in verità non mi perdeva d’occhio. Aveva previsto, credo, la mia intenzione, perché nell’istante in cui cercai di fare il salto, le sue mani mi bloccarono prepotentemente dicendomi:

“Mais vous êtes fou?” 1

“Sì, ero pazzo, pazzo fottuto, perché, quando uno vuole uccidersi, privarsi dell’unica cosa che ha in questa immensa meraviglia, in questo miracolo dell’universo, non può essere che un pazzo fottuto. Ma, per me allora, in quel periodo della mia vita, tutto era penoso e indifferente. Finire un combattimento e poi vederti subito lanciato in un altro, non è niente quando sei in forma, ma quando non ti reggi più neppure in piedi, quando sei solo, non hai nessuno al mondo, la cosa è ben diversa.

“Quella stessa sera, dopo essere stato dal dottore, non trovai nemmeno la forza di ritornare dal portoghese. Trascorsi la notte vicino all’entrata della metropolitana e il giorno dopo ritornai alla stamberga.

“Pian piano mi abituai al rumore del portoghese quando entrava in quel buco nero dove ero finito chiedendosi se ero ancora in vita. Se da una parte il mio animo si rallegrava udendo lo stridio della porta tutte le volte che veniva aperta, e veniva aperta unicamente dal portoghese, dall’altra detestavo sentire quelle sue parole. Soleva chiedermi:

“Sei ancora vivo?”

“A quella domanda muovevo qualche parte del mio corpo per farglielo capire.

“Preparati,” mi diceva lui allora, “preparati per l’inferno o per il paradiso, scegli tu, fatti tuoi, perché non ne avrai per molto.”

“Continuava però a portarmi una, due volte al giorno una tazza di tè caldo che io bevevo mangiucchiando qualche briciola di pane. Nonostante ciò, mi sentivo sempre più alla deriva, sempre più vicino alla morte. Ero arrivato agli sgoccioli ed in piena coscienza!

“Sentivo che non c’era più via d’uscita per me, ch’ero soggiogato dal destino e dall’uomo. Perché quel francese non mi aveva lasciato in pasto alle ruote del metrò? Perché mi aveva salvato la vita? Perché penare ancora? Perché tanta sofferenza e umiliazione? Le cose stavano andando di male in peggio, giorno dopo giorno. Mi restava unicamente l’istinto di sopravvivenza. Ma cosa avevo fatto per finire lì in quel sordido posto? Dove avevo sbagliato? Come ho potuto finire in quel modo? Domande atroci e senza risposta. La realtà era dove io mi trovavo e dove io mi trovavo c’era odore di sporco, di rancido, di guasto, di morte. Vedevo ormai i colori sempre più appannati e qualunque movimento era un’enorme fatica. Gli occhi si chiudevano. Né il cuore né il respiro sentivo più. Il cuore, quello stesso cuore che, quando aveva intuito che volevo darlo in pasto alla metropolitana parigina, si era messo a palpitare pazzamente, adesso invece sembrava non muoversi più.

“Lentamente ma costantemente scendevo verso il basso. Mi sentivo sempre più inghiottito dal nulla. Dal nulla ero sbucato e nel nulla stavo ritornando. Ero perduto. L’universo intero mi stava crollando addosso. Affioravano nella mia mente moribonda frantumi di ricordi, immagini sfumate, pensieri atroci:

“Chi ti ha amato? Nessuno.

“Chi piangerà per te? Nessuno.

“Cos’hai fatto d’importante nella vita? Niente.

“Cos’hai ricavato dalla tua esistenza? Solo problemi.

“Chi sei? Uno straccione.

“Chi ricordi? Il corpo vibrante di vita di Marina e il suo viso imbrattato di sangue.

“Entro in uno stato di delirio, ho delle visioni, degli incubi, degli orribili presentimenti. M’immagino la fine, mi pare di sentire un rumoraccio, la porta si spalanca, delle voci, un piede mi scuote. Non trovo la forza di rispondere, mi sento morto. Mi rotolano negli stracci in cui giaccio. Delle mani mi afferrano, mi buttano in una cassa, il coperchio si chiude sopra di me, colpi di martello sui chiodi, mi sollevano, mi mettono su un furgone: è la mia ultima gita.

“Dopo un breve viaggio, arrivo a destinazione, la dimora dei morti. Di nuovo mi sollevano, di nuovo scosse e scossoni, nessun rispetto, mi manipolano con sgarbatezza. Finalmente mi stanno calando nel buco: nasci da un buco per poi finire in un altro. Ci sei, infine! Un minuto di calma e di silenzio, i becchini devono prender fiato, poi il finimondo. Vogliono liquidarmi in fretta. A loro spetta un Pastis dopo quel lavoro, e a me? L’oblio, la notte, l’eterna notte. Una scarica di colpi secchi mi piovono addosso e da tutte le parti:

“Tum tum tum!”

“Sono le palate di terra che i becchini buttano sopra la bara. Mi sembra proprio di sentirne il peso, e che peso! Mi schiaccia, mi sento scoppiare il petto, le arterie, non ho la forza di gridare. Odo solo vangate di terra che mi piovono sopra, poi tonfi e ancora tonfi leggeri leggeri, poi più niente, e sei già dimenticato per sempre. Solo e nell’oscurità il tuo destino, il cieco caso da cui sorgi ha raggiunto il suo obiettivo.

“Un fetore ti colpisce le narici, una puzza di disfacimento, di bagnato, di scivoloso. Qualcosa si agita, esce dal guscio, si arrampica, si mette a masticare: è l’ultimo travaglio delle mascelle, autocannibalismo, quando non puoi più procurarti il cibo per mangiare, finisci per mangiare te stesso: vermi che mangiano vermi.

“A questo punto la decomposizione del corpo è totale: dal tutto è passato al niente. Le ossa sarebbero rimaste lì alla mercé del tempo ancora per un po’, ma poi, alla fine, sarebbero anch’esse definitivamente scomparse, diventate polvere, materia, particelle, atomi, atomi che si tramutano in magma, e questo fa parte della grande fornace dove tutto c’è, cuoce, si trasforma, diviene e sparisce di nuovo.

“Dopo questa immagine macabra di me stesso, dopo questa visione apocalittica, il mio stato fisico cambia. Le furie della vita che mi avevano bersagliato per così tanto tempo, si calmano, mutano. C’è una sterzata. Riprendo forza. Iniziano a muoversi le palpebre, sento un prurito al piede, un formicolìo monta su per le gambe, qualcosa si agita in me, si rimette in moto. Gli occhi si aprono, la luce, i colori riappaiono, i sensi si risvegliano, l’energia ritorna, posso udire, posso parlare, persino gridare, grido! E un urlo si sprigiona dal luogo in cui giaccio, un urlo pieno di furore e voglia di vivere!”

A questo punto Nicolò smette di raccontare, riempie e vuota un bicchiere di vino, si mette in bocca una polpetta ormai fredda ma saporita.

Amedeo guarda il cugino, fa un lungo respiro, beve anche lui, accende una sigaretta, un’ennesima sigaretta, borbotta qualche cosa tra i denti.

Nicolò fa finta di niente e riprende a narrare.

“Iniziai a riprendermi lentamente. Mi era ritornata la voglia di uscire, di vedere il cielo, altra gente, respirare aria fresca e, soprattutto, mi era venuto un grande appetito. Diedi al portoghese i soldi che mi rimanevano e lo pregai di comprarmi cibo e vino. Lo fece, faceva alla lettera tutto quello che gli chiedevo, ed è per questo che non sono mai riuscito a capire i veri sentimenti di quell’uomo nei miei riguardi. Di una cosa sono certo, che senza di lui non so come me la sarei cavata.

“Più volte, quando iniziai a uscire di nuovo, non trovando la forza di ritornare alla vecchia stamberga, dormii sotto i ponti insieme a barboni e reietti. Passai anche una settimana in cella realizzando così il mio vecchio sogno di Strasburgo.

“Uno spagnolo era stato pugnalato nel nostro doloroso ospizio e la polizia aveva arrestato tutti quelli che si trovavano là. Per me questa fu una vera e propria fortuna e per due ragioni. La prima perché in prigione trovai un letto e del nutrimento; la seconda perché, all’uscita, mi si avvicinò una vecchia signora chiedendomi se avessi dove abitare. Le dissi di no, naturalmente. Disse che gli ricordavo qualcuno, che voleva aiutarmi. Mi portò a casa sua. Mi fece da nutrice. E non solo. Mi comprò anche della biancheria intima, un vestito, mi portò dal barbiere. Non ti dico. Incominciavo di nuovo ad assomigliare a un essere umano.

“La vecchia signora non smetteva mai di domandarmi come stavo, come mi sentivo, di coccolarmi. Dopo alcune settimane, iniziò anche ad accarezzarmi il viso. Quanta tenerezza, dolcezza d’animo, o cosa?

“Era ordinata, la mia benefattrice, disciplinata, amante della routine. La mattina, dopo la colazione, usciva per fare le compere. Ritornava con legumi carne pane frutta, tutta roba fresca che piazzava sul tavolo in cucina. Faceva di nuovo il caffè, me ne offriva, si accomodava su di una poltroncina mettendo i piedi su uno sgabello imbottito, sorbendo la sua bevanda con gusto, mentre leggeva il giornale. A mezzogiorno e mezzo si metteva a fare da mangiare, all’una era tutto pronto. Dopo il pranzo, faceva una siesta. Un pomeriggio sì e uno no usciva per ritornare nel giro di un paio d’ore. Mi lasciava solo, come se fossi uno di casa. Io mi sentivo ancora debole per uscire. Solo ogni tanto facevo una piccola passeggiata nei dintorni. La sera cenavamo insieme, parlavamo di cosa mangiare il giorno dopo, di qualche evento particolare successo a Parigi, ma mai di lei e della sua vita e tanto meno della mia. Si guardava bene dal farmi domande. Non veniva nessuno a trovarla, solo il telefono squillava, ma sempre quando lei era lì. Viveva in quell’appartamento di due camere e forse, anche lei, era tutta sola.

“Una sera, dopo aver cenato, mi ritirai in camera, andai a letto e mi misi a leggere.

“Poco dopo la vidi entrare con una vestaglia leggera addosso. Era la prima volta che faceva una cosa del genere e vivevo in casa sua ormai da alcuni mesi. Intuii quello che voleva, qual era il mio scotto per tutto quello che aveva fatto e stava facendo per me. Era normale se ci rifletti, altrimenti la cosa non avrebbe avuto senso. Niente per niente nella vita, per ogni cosa un’etichetta col prezzo sopra.

“Non l’avevo mai considerata come un oggetto sessuale e all’idea di doverla toccare con una tale intenzione, mi contrariava. Un mucchio di idee mi balenarono in testa. Tra di esse c’era anche quella di andarmene via.

“Mentre pensavo ad una reazione, si avvicinò a me risoluta, si sedette sul letto, iniziò a guardarmi. Era come se leggesse quello che passava nella mia testa. Non si preoccupò. Si mise a toccarmi. Capivo che la sua era una fame di contatto, di carezze, di amore. Anch’io ne avevo bisogno, anch’io ero affamato di tutto, ma i miei sentimenti non erano ancora ammaestrati a tal punto, al punto di sposarli con i suoi. Per un momento lasciai fare, aspettando di trovare una soluzione per togliermi dalla posizione in cui mi trovavo.

“Portò la sua mano tra le mie gambe. Il mio uccello, che era stato molto trascurato in quegli ultimi tempi, come lo sfiorò, toccò, scattò immediatamente, si eresse e improvvisamente tutto il mio stato d’animo cambiò. Iniziai a sentire che potevo fare l’amore, che volevo fare l’amore con lei. E non solo. Con questo mio dono l’avrei anche ricompensata per tutto quello che aveva fatto per me.

“Con un gesto, voluto o istintivo, la tirai a me. Era soffice, era dolce, si muoveva nelle mie braccia con grazia, con tatto e signorile eleganza, sembrava una piuma. Era diventata attraente, sensuale, bella, e tutto in una volta. La desideravo anch’io!

“Cercai di spegnere la luce. Me lo impedì. Si tolse la vestaglia, restò nuda. La sua carne era flaccida, piena di rughe, ma ben profumata. Tremavo per l’emozione che si era accesa in me. Lei non apriva bocca. Ogni tanto mi adocchiava. Il suo viso era eccitato. Dolcemente prese la mia testa e la portò sul suo corpo e, infine, la piazzò sopra il pube. Chiusi gli occhi e la baciai dappertutto. Mentre si abbandonava al mio desiderio, spensi la luce e, poco dopo, l’eccitazione s’attutì, sparì, divenne sonno profondo.

“La mattina, quando mi svegliai, un odore di caffè olezzava nella camera. La vecchia signora, che tanto vecchia signora non lo era, vedendo che mi ero svegliato, venne da me, mi diede un bacio, mi disse che quella notte l’avevo resa felice, molto felice e che l’esperienza fatta non voleva più ripeterla né con me né con altri. Il suo ricordo, insieme al degustato odore della giovinezza, le avrebbero colorato il viso ogni volta che ci avrebbe pensato.

“Mentre parlava notai che il suo viso, infatti, era ringiovanito, amabile, contento. Poi uscì, per ritornare subito dopo con un vassoio pieno di croissants ancora caldi e caffè che posò lì accanto a me. E, dopo avermi dato ancora un bacio, questa volta sulla fronte, si allontanò lasciandomi solo.

“In verità, la mia benefattrice, non era sola, conosceva molta gente, tra cui un tipo che aveva aiutato un tempo a mettere su un club. Me lo presentò. Scambiammo qualche parola e, prima di andarsene, mi disse, porgendomi un biglietto da visita, di andarlo a trovare nel caso avessi avuto bisogno d’un lavoro.

“La voglia di vivere, di fare, si fecero di nuovo strada in me e in tutto il loro ardore. Grazie a quella donna, parecchie cose si spianarono innanzi a me. Se lei trovò una nuova vitalità facendo all’amore con me, io mi rimisi una volta ancora sulla strada, ritrovando i miei vecchi interessi e la mia passione per la vita.”

Nicolò interruppe qui il racconto della sua vita all’astero.

 

1 Ma lei è pazzo?


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