Ha un senso la vita? (5)

La legge di causalità

Qualcosa di determinante nella nostra struttura biologica ci inchioda a nascere come nasciamo: con due ali, con quattro zampe, con centopiedi. Kant chiama questo la legge di causalità. Cosa intende con ciò? Intende che nella mia cellula uovo c’ero già io con i miei occhi, gambe, braccia, testa, cuore, dita; io, quindi, non potevo nascere albero, cavallo, con tre gambe (prescindiamo da mutazioni e da malformazioni genetiche), ero obbligato da una legge di natura, la legge di causalità, appunto, a nascere come sono nato: un mammifero bipede con le caratteristiche di homo. Questa è la nostra struttura biologica, Rossi.

L’homo è un favoloso intreccio di neuro-trasmettitori che, di volta in volta, a seconda della pulsione biologica, si mettono in azione e realizzano la chiamata. La pulsione risponde ad un bisogno istintivo, a qualcosa di questo genere: “Tocchi questo bottone, viene fuori questo colore; scatta questa pulsione, viene fuori questo bisogno”. Tutto viene messo in scena automaticamente per la propria sopravvivenza. L’insegnamento biologico è un insegnamento privo di professori, ma funziona perfettamente. È un automatismo molecolare: senti sete, devi cercare acqua; senti questo, devi cercare quest’altro. Questo è il nostro repertorio d’insegnamento istintivo, Rossi.

Se si volesse dare un “senso” alla pulsione che scatena l’azione, si potrebbe dire che essa cerca di soddisfare, a seconda della chiamata, un bisogno biologico (cibo), di procreazione (sesso), psicologico (affetto). Il corpo, nella sua materialità, è indipendente, fa tutto da solo, senza un intervento esteriore. Forse lo stomaco mi chiede come e quando deve digerire? Le gambe mi chiedono come camminare? Gli occhi come vedere? Il corpo, però, ha bisogno di “cose” che si trovano nel mondo esterno per sostenere quello interno e, per ottenerle, manda messaggi al cervello. Questo, a sua volta, con il suo esercito di neuro-trasmettitori, dopo avere istintivamente esaminato il messaggio, cerca di realizzarlo. Fino a quando le cose funzionano a questo livello naturale, per il corpo non esistono altri bisogni. Un essere può nascere e morire senza andare oltre il livello biologico.

La crescita fisica, a differenza di quella mentale, è determinata sin dalla nascita. Fornendo una nutrizione adeguata, un individuo cresce dall’infanzia all’età adulta attraverso stadi fisici che sono programmati sin nei minimi particolari dai geni. Viceversa, gli stadi della crescita mentale non sono immutabili, ma dipendono notevolmente dall’ambiente sociale e dall’individuo stesso.

 

Il cervello

Oggi sappiamo molte cose su come funziona il cervello. Non era così per gli antichi. Gli egiziani, i greci (incluso Aristotele che prendeva il cuore per il cervello nonostante tutte le dissezioni anatomiche che aveva fatto), non lo conoscevano. Poi, dopo millenni di totale ignoranza sulla sua vera natura, arrivò Cartesio. Costui spaccò in due l’essere umano: separò lo spirito dalla materia, cioè la res cogitans dalla res extensa, dividendo tutto in mente e corpo.

Questa divisione è stata per l’uomo, a dir poco, catastrofica. Allungò la distanza tra cervello e corpo, dichiarò che gli animali erano solo delle macchine, oggetti che vivevano ma non sentivano, e rinforzò l’ideologia oscurantista cristiana. Il disastro che combinò Cartesio, il padre della filosofia moderna!, lo spiega molto bene il neurologo, Antonio Damasio, nel suo saggio “L’errore di Cartesio”.

Dopo di lui, il cervello è stato descritto in tanti altri modi, come “tabula rasa”, come un riflesso del “buon selvaggio”, come the ghost in the machina (il fantasma nella macchina), come l’homunculus, per non parlare delle ultime trovate del behaviorismo, dell’associassionismo, del connessionismo, dell’assemblaggio ecc., tutti bei concetti, ma lontani dalla realtà neurale.

Gli ultimi studi e sviluppi sul cervello sostengono che è di natura plasmabile, che si modella a seconda del nostro fare. I tre brani che seguono, uno tratto da “Il cervello plastico” di Ian Robertson, l’altro da “Tabula rasa” di Steven Pinker, e il terzo da “Les mystères du cerveau” di Anne Debroise, confermano la tesi della plasticità del cervello.

Scrive Robertson:

“Tutto questo sta a significare che il nostro cervello è modellato dal lavoro che facciamo? Proprio così: alcuni ricercatori hanno analizzato il cervello di individui deceduti, studiando in particolare quante ramificazioni o dendriti ogni neurone possiede in una certa aria del cervello. Ciò che scoprirono fu che, nei dattilografi, gli operatori di macchine e di tecnici riparatori, le cellule cerebrali legate alle dita erano più ramificate dei neuroni responsabili di altre parti del corpo, nel caso specifico il tronco. Questi risultati, per quanto preliminari, sono in linea con ciò che sappiamo di come l’esperienza s’imprime nel cervello.

“Lo stesso gruppo di ricercatori ha ottenuto risultati ancora più sorprendenti in uno studio successivo, condotto eseguendo un esame dettagliato del cervello di un certo numero di individui di età diverse, anch’essi deceduti. La scoperta fu di notevole importanza: la complessità ed il numero di ramificazioni “dendriti” dei neuroni nelle aeree cerebrali del linguaggio erano strettamente collegati al grado di istruzione del soggetto da vivo.

“Se pur non fu possibile determinare quale fosse la causa e quale l’effetto – se la complessità dei neuroni o l’elevato grado di istruzione – l’ipotesi eccitante e fortemente plausibile è che l’istruzione favorisca il germogliare di dendriti nelle cellule del cervello. Di fatto, noi sappiamo che l’istruzione previene i danni del morbo di Alzheimer in tarda età; ciò rafforza la teoria secondo cui l’istruzione non solo coltiva la mente, ma incrementa anche la materia cerebrale. L’istruzione è una pietra miliare della civilizzazione e agisce scolpendo il cervello degli esseri umani, incrementandone le connessioni cerebrali; questo è uno dei modi cruciali in cui la cultura ha preso il sopravvento sull’evoluzione naturale alla guida dell’umano destino”, pp. 45-46.

Scrive Pinker:

“Perciò, che l’esperienza, l’apprendimento e la pratica influiscano sul cervello è scientificamente assodato… Non sorprende che chi suona il violino abbia un cervello diverso da chi non lo suona o che gli esperti di linguaggio dei segni o di alfabeto Braille abbiano un cervello diverso da chi parla e legge. Il cervello si modifica quando si è presentati per la prima volta a qualcuno, quando si ascolta un pettegolezzo, quando si assiste alla cerimonia di assegnazione degli Oscar, quando si perfeziona il proprio tiro al golf, insomma ogni volta che un’esperienza lascia una traccia nella mente. L’unico interrogativo è come l’apprendimento influisca sul cervello. I ricordi vengono immagazzinati in sequenze proteiche, in nuovi neuroni o sinapsi, oppure in modificazioni della forza delle sinapsi esistenti? Quando si impara una nuova tecnica, essa viene memorizzata solo in organi dedicati all’apprendimento di tecniche “come il cervelletto e i gangli basali”, o modifica anche la corteccia? Un aumento di destrezza dipende dall’impiego di un maggior numero di centimetri quadrati di corteccia o dall’impiego di una maggiore concentrazione di sinapsi nei medesimi centimetri quadrati? Queste sono questioni scientifiche di grande rilievo, ma sulla nostra capacità di apprendere, e in che misura, non dicono nulla. Sapevamo già che i violinisti sperimentati suonano meglio dei principianti, altrimenti non avremmo mai messo le loro teste sotto lo scanner. La plasticità neurale non è che un altro nome per designare apprendimento e sviluppo, descritti a un diverso livello di analisi”, pp. 110-1.

Scrive Debroise:

“Voilà sans doute le plus grand enseignement de ces dernières années, celui qui donne la neurologie sa dimension la plus captivante: le cerveau possède une remarquable capacité à se modifier lui-même, en interaction avec son environnement. Sous l’oeil des microscopes, on a vu des neurones pousser, des dendrites s’allonger, des circuits mourir ou se renforcer au gré des événements: l’apprentissage de nouvelles tâches modéle le cerveau; les exercices effectués dans le cabinet d’un psychologue comportementaliste également”, p. 7.

E così, finalmente, dopo millenni di ignoranza, dopo millenni di oscurantismo sul reale funzionamento del cervello, il genere umano incomincia a conoscerlo, incomincia a conoscere l’organo che lo guida e lo tiene in vita.

 

Il determinismo

Vorrei parlarti ora, anche se brevissimamente, Rossi, del determinismo a livello molecolare. Mi servirò del saggio di Christian de Duve, “Polvere vitale”.

Il determinismo è la dottrina scientifico-filosofica secondo la quale tutti i fenomeni dell’universo sono il risultato di condizioni antecedenti o concomitanti. Secondo De Duve, ci sono diversi tipi di determinismo.

Cominciamo con quello chimico, pp. 148-149. Questo ha a che fare con la contingenza, con qualcosa che può essere o non essere, ed è accidentale: noi siamo, secondo alcuni chimici ottimisti, un accidente, un caso rarissimo, una probabilità su miliardi di miliardi. Sono queste le probabilità di vita sui pianeti.

Segue il determinismo genetico, p. 429. Questo corrisponde alla dottrina nota come darwinismo sociale, in cui le disuguaglianze tra gli individui sono il prodotto della selezione naturale e devono perciò essere accettate come naturali e inevitabili. In altre parole, il determinismo genetico è innato e gli anglosassoni, particolarmente gli americani, si rifanno molto a questo modo di vedere la società: solo i più competitivi e i più forti dominano!

Terzo viene il determinismo ambientale, pp. 429-430. La concezione marxista sostiene che il comportamento umano è quasi completamente malleabile e che, per fondare una società egualitaria, occorrono solo misure appropriate di carattere politico, sociale, educativo ed economico. In breve, l’ambiente ha un potere illimitato nel plasmare il comportamento dell’uomo.

Infine, abbiamo il determinismo neuronale, p. 415. Questo si avvicina all’ “io”, alla coscienza, allo spirituale, al determinismo secondo alcuni; al libero arbitrio, secondo altri. Approfondiamo.

 

La ragione

Come si è venuta a creare la ragione? Grosso modo così: l’istinto scatta dalla materia biologica, si trasforma in pulsione, sensazione, affetto, pensiero, intelletto; quest’ultimo costruisce i concetti, li memorizza; la coscienza a sua volta li assimila, il giudizio li colloca nella scala dei valori, il cervello li custodisce e la ragione, ogni qualvolta ne ha bisogno, dispone di essi a seconda dell’esigenza. Voilà l’edificio della ragione.

A questo punto, noi ci chiediamo cos’è rimasto della vecchia essenza? Nulla di nulla. Niente c’è nell’essenza; tutto è nell’esistenza. L’essenza, l’essenzialismo, la sostanza, la forma, intese misticamente, sono parole vuote, perché prima viene l’atomo e poi l’esistenza e, solo in seguito l’essenza. Questo tipo di essenza, però, non ha nulla a che vedere con l’essenza platonica. È un’essenza immanente, del reale.

Un esempio: l’essenza di un piatto di pastasciutta che un operaio si immagina, mentre sta lavorando, sta nella sua testa. Così, non appena suona mezzogiorno, va a casa, prende olio, cipolle, pomodori, sale, li mette in una padella e prepara la salsa, poi, in una pentola, fa bollire l’acqua per gli spaghetti, quando sono pronti li scola, ci versa sopra la salsa, mette tutto in un piatto: una bella grattugiata di parmigiano reggiano, una manciata di basilico fresco ed ecco che l’essenza della pastasciutta, originariamente nella sua testa, è diventata realtà.

Un architetto può immaginarsi in anticipo l’edificio che vuole costruire, ma l’essenza dell’edificio sta già nella sua testa. Può figurarsene mentalmente la forma, la struttura, l’aspetto architettonico. Per fare tutto questo, ovviamente, ci dev’essere l’esistente, l’architetto. Non architetto, non edificio ossia non esistenza, non essenza. Prima viene l’esistenza e poi il piatto di pastasciutta, l’edificio o l’essenza della pastasciutta e dell’edificio. Non c’è sostanza intesa come essenza; non c’è forma intesa come essenza e non c’è essenza intesa come idea preesistente alla vita. Parole, queste, su cui fior di filosofi, lungo i secoli, si sono arrovellati il cervello inutilmente. Oggi è l’esistenza degli esseri umani e delle cose che scandisce l’essenza. In altre parole, prima viene l’esistenza e poi, solo poi, l’essenza.

La coscienza

Questa non può servire all’uomo senza la ragione. È la sua bussola, il suo unico strumento di cognizione. La coscienza si crea da sé e, più si crea, più diviene cosciente di se stessa e del suo fare. È proiezione di se stessa. Non smette mai di superarsi. Il suo è un eterno ricrearsi. L’edificio culturale è creato sull’immagine della coscienza, è una sua costruzione che, sensazione dopo sensazione, pensiero dopo pensiero, intuizione dopo intuizione, visione dopo visione, concetto dopo concetto, innalza senza pausa l’edificio della coscienza, quindi della ragione e della conoscenza.

Prendo coscienza di questo, quindi faccio quello. Presa di coscienza vuol dire proprio questo: essere consapevole delle proprie azioni. Queste, a loro volta, vengono filtrate dalla conoscenza e dalla ragione. La coscienza, Rossi, è una pianta sempre verde, una pianta che, grazie al suo dinamico e inarrestabile motore, non smette mai di crescere.

 

Il libero arbitrio

Esiste? Ne siamo sicuri? E perché non il determinismo biologico? Quando un uomo, diciamo un ingegnere, che fa una vita perfetta insieme alla sua famiglia, impazzisce improvvisamente e uccide tutti i suoi e infine se stesso, quest’atto omicida è il risultato della sua volontà oppure c’entrano la biologia, il determinismo?

Cerchiamo di capire meglio. L’ingegnere, prima di compiere la strage, viveva secondo le norme della società o secondo i suoi richiami interiori? Il suo io era al servizio della biologia o al servizio dei costumi? Detto diversamente, era un naturalista o un conformista?

Secondo noi, Rossi, è più probabile che si sia integrato nella vita sociale più con la forza della volontà che con quella della naturalità, altrimenti come si potrebbe spiegare il suo atto omicida?

Il nostro ingegnere avrebbe potuto fare parte di quelle macchiette sociali benestanti che tutto ciò che fanno lo fanno secondo i crismi della buona educazione, secondo le convenzioni dei perfetti, dei ben pensanti. Il conformismo spesso domina questa gente. Sono i benedetti sociali, il gioiello dei mandriani. Si atteggiano addirittura a santi. I loro vicini li descrivono, dopo la strage, come persone immacolate, sempre corrette e perfette.

Così era probabilmente l’ingegnere prima di far fuori tutta la sua famiglia e infine se stesso: corretto e perfetto. E poi? E poi è arrivata l’ultima goccia, è scattata la molla, e questa quando scatta, ahimè, scatta! Ecco i santi che, a forza di fare i santi, si trasformano in demoni. Ma a trasformarli in demoni è stato il libero arbitrio o il determinismo genetico?

Non a tutti vanno a genio i modelli sociali in cui nascono, Rossi. E questo per diverse ragioni, soprattutto per il loro temperamento, personalità, ambizione. Forse l’ingegnere si sottometteva malvolentieri a leggi, costumi, riti che lo trascendevano senza soddisfarlo. La sua biologia, quella che l’aveva fatto diventare ciò che era, un animale sociale con il marchio d’ingegnere, non accettava tutto ciò che gli imponevano la sua volontà e il suo libero arbitrio. L’ingegnere, forse, si era sottomesso troppo facilmente a leggi non naturali. Viveva, o cercava di vivere, da santo e non da animale sociale quale era. A forza di reprimere le sue pulsioni, i suoi impeti, i suoi bisogni emozionali non si rendeva conto che stava minando la legge di natura. In che modo? Pretendeva di essere felice quando, forse, non lo era; sorrideva quando aveva voglia di piangere; diceva “Sì” quando tutto il suo buon senso lo costringeva a dire “No”.

Di più. Voleva a tutti i costi rimanere un marito fedele, quando in realtà, può darsi che, sotto sotto fosse un mandrillo scatenato. S’imponeva, a forza di volontà, d’essere l’uomo ideale, l’ingegnere impeccabile, il cittadino o il suddito esemplare. Forse anche, perché no?, un bigotto credente. E così, reprimendo oggi e reprimendo domani, facendo tutto secondo il modello sociale che gli avevano imposto a casa e a scuola, era arrivato il giorno in cui il suo sistema nervoso, la sua biologia, i suoi neuroni, la sua natura non aveva più retto; era scattata la molla, la molla omicida, quella stessa molla che, lungo l’evoluzione, aveva aiutato la specie homo a superare gli ostacoli tutte le volte che le si presentavano, ma questa volta, con l’ingegnere, ha funzionato in negativo.

Questo istinto intelligente di sopravvivenza può essere represso solo fino ad un certo punto, fino a quando esso non capisce che la sua esistenza è in pericolo. L’ingegnere, che si formalizzava fino alla nausea, era un pericolo per la specie. Lo si doveva eliminare. Lo si eliminò facendo scattare in lui qualcosa che andava oltre la sua volontà di sottomettersi a leggi sociali castratrici. Il determinismo biologico, forse, in questo caso, l’ebbe vinta sul libero arbitrio. Lo stesso discorso potrebbe valere, forse, per la presunta assassina di Cogne; per le sette che si autodistruggono ecc.

Il determinismo è naturale, il libero arbitrio è culturale. Il primo è un corredo con cui la macchina homo nasce, il secondo lo si acquisisce. Il primo ha una storia di miliardi di anni; il secondo di qualche milione. Si può fare un’analogia con l’egoismo e l’altruismo.

L’egoismo è naturale, l’altruismo è culturale. Il primo appartiene alla specie, il secondo alla cultura che la specie si è creata. L’altruismo naturale, che alcuni scienziati, come Richard Dawkins ne “Il gene egoista”, ad esempio, pensano sia realmente “altruismo”, in realtà non lo è. È l’egoismo travestito da altruismo.

Quando certi animali, come gli uccelli, esibiscono un comportamento altruistico, lo fanno per deviare le prede dai loro piccoli. Si fingono feriti e i predatori credono che siano prede facili. Non lo sono affatto, anche se potrebbero diventarlo come le api che si autodistruggono per salvare la propria specie una volta punta la vittima. In realtà, anche quest’atto fa parte di un falso altruismo. Lo scopo dell’atto altruistico, in questo caso, è di preservare, giustamente, la prole, la propria specie e, quindi, non è un atto altruistico, ma egoistico. È un atto cieco ma che vede! In natura domina l’istinto di autoconservazione che, in certe situazioni, si traduce in determinismo biologico, come quello dell’ingegnere.

Il vero atto altruistico è quello che trascende sia l’egoismo che la propria inclinazione altruistica e s’impone come un atto della ragione, almeno così ci insegna Jean Searle nel suo saggio, “La razionalità nell’azione”.

In realtà, ciò che noi chiamiamo coscienza, Rossi, non è altro che istinto evoluto, ma pur sempre istinto. Questo, ai suoi albori, si divise in istinto per l’autoconservazione e, solo in seguito, in istinto protettivo per la prole. Col tempo, sia l’uno che l’altro si sono trasformati in coscienza. Il pensiero è nato dalla coscienza, come l’istinto di autoconservazione. L’istinto e il pensiero ce l’hanno anche gli animali.

I leoni, ad esempio, prima di attaccare le loro prede, si organizzano, scelgono quelle più vicine, più deboli, preparano l’agguato e poi vanno all’attacco. Con gli animali umani il pensiero si è sviluppato ulteriormente grazie al linguaggio, cosa che manca agli altri animali. “Il 99 per cento del nostro Dna è esattamente identico a quello dello scimpanzè, e noi siamo uguali a lui per le nostre funzioni di ogni tipo. Abbiamo in più il gene del linguaggio, e questo ci differenzia”, Umberto Veronesi, L’espresso, 27 gennaio 2005.

Il linguaggio, dunque, portò alla scrittura, questa ai libri, questi ad una cultura che ricorda e che trasmette di generazione in generazione le esperienze individuali e collettive degli uomini.

Il movimento istintivo del serpente è più veloce del movimento intenzionale; il movimento riflesso che uno ha quando tocca un oggetto che scotta, è più veloce del movimento intenzionale: così insegna l’istinto. Cosa potrebbe voler dire questo? Potrebbe voler dire che, se i movimenti riflessi, istintivi, naturali sono più veloci dei movimenti intenzionali, riflessivi, volontari, le probabilità che le nostre azioni siano controllate, non dal libero arbitrio, ma da un comportamento neurologico che anticipa ogni nostra azione intenzionale, siano superiori e che, quindi, non ci sarebbero libere scelte in certe situazioni, ma atti predeterminati biologicamente. In altre parole, naturalmente parlando, i nostri muscoli, quelli guidati dall’istinto, dal riflesso automatico, sono più rapidi di quelli decisi dal pensiero.

Questo non vuol dire che il libero arbitrio non esista. Scrivono Charpak e Omnès:

“I filosofi più sobri e attenti, Aristotele e Kant, hanno sempre messo la causalità al centro della ragione umana. Se ci si basa sui loro sistemi, ogni effetto deve avere una causa, e ogni causa provocare immancabilmente un effetto, altrimenti il pensiero non può esistere. Questa regola della causalità è valida nel piano classico del palazzo delle leggi (il palazzo delle leggi, secondo loro, è il palazzo a due piani della quantistica: quello sotto, detto in fretta e rozzamente, è abitato dal determinismo e quello sopra dal libero arbitrio), e si è visto come abbia assunto una forma deterministica dopo la scoperta delle leggi di Newton. Così ci troviamo in presenza di due piani sovrapposti, uno che sguazza nella libertà assoluta e l’altro sottomesso a una causalità tirannica. Si contrappongono quindi coppie di opposti, caso e necessità, bianco e nero, libertà senza limiti e vincoli rigidi, che sembrano impossibili da conciliare”, “Siate saggi, diventate profeti”, pp. 83-84.

La battaglia tra determinismo e libero arbitrio, tra natura e cultura, tra corpo e mente è e sarà cruenta e senza esclusioni di colpi. Non si sa chi vincerà. Una cultura deterministica potrebbe privarci di valori etici, morali, umani; d’altra parte, una cultura del libero arbitrio potrebbe farci finire come l’ingegnere che distrugge la propria famiglia. Chissà, forse la risposta è in un connubio fra le due. Indaghiamo ancora!

 

Il concetto di libertà in Natura

E dov’è questo concetto? E dove e quando si è mai stati liberi? Liberi poi di fare cosa? Se partiamo dagli elementi ultimi, troviamo che tutte le particelle di cui l’atomo è composto sono schiave di quest’ultimo. Come i pianeti sono condannati a girare attorno al Sole, così le particelle subatomiche sono condannate a girare attorno al loro signore, l’atomo. Se prendiamo una stella qualunque della nostra galassia, troviamo che essa è schiava delle leggi di gravità che governano la Via Lattea prima e dell’esaurimento delle sue risorse poi. E la Via Lattea, a sua volta, è anch’essa prigioniera della galassia Andromeda. Non cambia nulla con un albero che è schiavo per tutta la sua esistenza della zolla su cui si erge. L’unica libertà concessa a qualsiasi animale della Terra, uomo incluso, è quella istintiva, che non è per nulla libertà. E allora, dov’è la libertà in Natura? Siamo nati nei nostri bozzoli e nei nostri bozzoli moriamo. Anche i quanti del libero arbitrio di Charpak e Omnès resteranno per sempre imprigionati al piano superiore.

In Natura, se si vuole ordine, si deve sottostare a regole, leggi. Un corpo celeste libero, privo della legge di gravità, che scarrozza ciecamente nel vuoto, è un corpo privo di libertà che, prima o poi, sarà catturato da un astro più grande e, se non sarà catturato, si distruggerà, si perderà nell’immensità del Cosmo. Questo corpo celeste alla deriva rappresenta il caos, il disordine assoluto, cieco.

C’è un altro tipo di disordine, quello organizzato, quello che vede. In altre parole, se si vuole la vita, allora bisogna accettare il disordine. Noi non siamo ordine, noi siamo disordine molecolare. È grazie al disordine, se siamo qui. Noi non siamo il prodotto che esce dal caos per trasformarsi in ordine. Al contrario, siamo il risultato di fenomeni che vanno dall’ordine verso il disordine, il caos. L’opposto di quello che pensavano i greci. Fisicamente parlando, noi siamo caos. Siamo un continuo sfacelo cellulare, biologico, fisico.

In questo stesso momento in cui ti sto scrivendo, Rossi, centinaia di migliaia di cellule muoiono in me, preparando il mio corpo alla sua totale disintegrazione, al suo totale caos, morte, sparizione, estinzione.

“Quanto alla diversità della natura”, scrive Ilya Prigogine ne “La fine delle certezze”, “pensate a questa stanza in cui sto scrivendo: quel miscuglio di gas che è l’aria vi ha più o meno raggiunto un equilibrio termico (ordine, diremmo noi) e si trova in uno stato di disordine molecolare; ma ci sono anche questi bellissimi fiori disposti nel vaso da mia moglie, che sono oggetti lontani dall’equilibrio (cioè dall’ordine), oggetti altamente organizzati grazie ai processi irreversibili del non-equilibrio”, pp. 53-54. In altre parole, l’ordine è morte e il disordine è vita.

Detto brevissimamente e semplicemente, Rossi, in natura, il concetto di libertà non esiste.

 

La libertà sociale esiste?

Intesa culturalmente, la parola “libertà”, non è “libertà”, ma è schiavitù. Siamo schiavi dei predatori sociali, schiavi di noi stessi, schiavi dei nostri pruriti, schiavi della nostra ignoranza. Anche i quattro principali saccheggiatori (di cui si è parlato ne Lo Stato predatore) sono schiavi, ma loro questo non lo sanno, il che è ancora più grave. Non sanno di essere schiavi del loro egoismo e della loro sete di potere. La libertà, poi, di cui questi signori ti parlano, Rossi, è una libertà obbrobriosa. Se la sono inventata per meglio sfruttare il mondo. Ti dicono: “Sei libero di studiare”, però non hai i soldi per farlo, quindi non puoi studiare. Ti dicono: “Sei libero di sceglierti la clinica che vuoi per farti operare”, ma ci vogliono i soldi e non li hai. Ti dicono: “Sei libero di uscire dalla tua miseria e migliorare la tua condizione sociale”, ma come puoi uscire dalla tua miseria e migliorarti se non trovi neppure lavoro per sfamarti? La “libertà”, come la “democrazia”, socialmente parlando, rappresentano la mente machiavellica e predatoria del mondo cieco e barbaro in cui viviamo.

Il mandarino italiano, Massimo Cacciari, in un programma su “Rai Educational”, si chiede se esiste la libertà e risponde dicendo che per lui, anche se non può fare a meno della libertà, in realtà essa non esiste. Ecco il suo discorso:

“Che cos’è la libertà? Possiamo comprenderla come un qualcosa di concreto, come conosciamo o calcoliamo i fenomeni? No, è impossibile. È impossibile la dimostrazione della libertà. Facciamo un esperimento di pensiero. Come posso provare ora che io ho scelto di dire ciò che sto dicendo, le parole che ho appena pronunciato? C’è un esperimento di tutto ciò? No, non c’è. Solo se io potessi tornare indietro e con me tornassero indietro le condizioni generali di ciò che ho detto, e tornasse anche indietro tutto il mondo di un istante fa e io ripetessi le stesse e medesime cose che ho detto con la stessa voce, con gli stessi termini che io ho usato un istante fa, solo allora potrei dire che sono stato io che ho scelto di dire ciò che ho detto. Questo è l’unico esperimento che mi permetterebbe di sostenere che io sono stato libero, sono stato l’autore, colui che ha scelto di dire ciò che ho detto un momento fa. Ma questo esperimento è radicalmente impossibile. Allora io dubiterò sempre che ciò che ho detto un istante fa sia il frutto d’una costrizione. Qualcosa mi ha usato per dire ciò che ho detto. Sono state una moltitudine di cause che mi hanno costretto a dire ciò che ho detto. È indimostrabile la libertà: ecco l’idea kantiana. La libertà non è un fenomeno, non è una cosa, è un pensiero dell’uomo, indimostrabile, incatturabile, è il noumeno. Non è qualcosa che noi possiamo misurare, vedere, toccare, calcolare. È un’idea che non potrò mai dimostrare e che mi è comunque indispensabile per vivere. È vero, perciò, che non posso dimostrare di essere libero, ma è anche vero che io non posso vivere senza l’idea che io sia libero. L’idea di libertà mi è necessario alimento, ecco la ragione pratica kantiana, anche se non posso dimostrare di essere libero. Il mio destino è pensare che sono libero, anche se poi non lo sono. È vero, però, che io non posso dimostrare di essere libero, ma è altresì vero che io non posso vivere senza l’idea di libertà”.

Invece, egregio signor Cacciari, il noumeno è dimostrabile. Anche un topo, se potesse parlare, direbbe che cos’è. Direbbe, non come fece Schopenhauer che sostenne che il noumeno è volontà, ma direbbe semplicemente: “Tocca questo bottone e salta fuori questo colore.” Ecco cos’è il suo noumeno, ecco come la penserebbe il topo.

Il pensiero che esso si è fatto di quel “tocca” è reale, concreto. Il noumeno, in questo caso, signor mandarino, è fisicità tanto quanto lo è il fenomeno o quanto lo è lei senza il suo bel cervello. Le è chiaro il concetto ora? No? Veda, il pensiero si dimostra solo e solo per mezzo dei fenomeni da cui esso dipende e attraverso cui parla. Solo quando si parla di pure astrazioni, come fa lei, di pure invenzioni, come quella di Bogududù, solo allora il pensiero è aria fritta priva di particelle. In altre parole, non fenomeno umano, non noumeno, non Kant e tanto meno lei signor Cacciari.

Il concetto di libertà, dunque, è un concetto che va preso con le molle. Oltre a prestarsi a tante interpretazioni fasulle, porta anche a molti fraintendimenti sociali, dando man forte a chi è al potere. Comunque, e questo dovrebbe esserti chiaro, Rossi, per quello che riguarda la nostra responsabilità sociale e individuale, poco importa se siamo stati programmati dalla Natura per ciò che facciamo oppure se siamo il risultato del libero arbitrio: in entrambi i casi, ognuno deve farsi carico di ciò che fa. Deve rispondere di fronte al tribunale della ragione delle sue azioni. Detto diversamente, programmati o non programmati, siamo sempre e ovunque ritenuti responsabili delle nostre azioni.


 

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