Il Contratto – racconto in 7 post: parte quinta

Ophelia

 Si chiamava proprio così: Ophelia. L’aveva incontrata ad una conferenza di psichiatria. L’oratore era un notissimo psicoanalista melbourniano. Il titolo della sua conferenza: “Disturbi mentali e disagio sociale”.

Quando l’oratore finì di parlare, Max chiese perché tanti maschi australiani cercavano donne di altri paesi e particolarmente donne indonesiane. Lo psicoanalista rispose dicendo per prima cosa che le donne australiane si erano ormai fin troppo emancipate per i macho locali e, seconda, perché gli uomini australiani avevano ancora un forte attaccamento per i loro “mate” ( compagni ) e questo a volte privilegiava l’amicizia maschile a scapito di quella femminile.

A questo punto Ophelia aveva posto una domanda, non all’oratore, ma a Max. Gli chiese cosa gli facesse pensare che gli uomini australiani, in realtà, preferissero le donne straniere. Il conferenziere, visto che la domanda non era stata indirizzata a lui, approfittò per andarsene.

Nel giro di qualche minuto Ophelia e Max si ritrovarono soli, la sala si era svuotata subito dopo che l’oratore se n’era andato.

Max disse alla sua interlocutrice che era un fatto che molti maschi del paese preferivano le straniere. Lui stesso aveva un amico che si era indirizzato ad un agenzia matrimoniale specializzata in donne che provenivano prevalentemente dall’Indonesia. Allora lei gli chiese se le donne australiane facevano schifo anche a lui. Affatto, rispose.

Decisero di continuare la discussione fuori. Si trovarono un bar, ordinarono, lui caffé e lei tè, e poi proseguirono con quell’argomento. Quando il locale stava per chiudere, Ophelia propose a Max, se la cosa lo interessava, di andare a casa sua dove avrebbero potuto parlare fino a quando lo desideravano.

Viveva in un appartamento di non più di cento metri quadrati, anche se sembrava più ampio. Si accomodarono, lui sul sofà e lei su una sedia a dondolo. Parlarono ancora degli uomini australiani. Ad un certo punto, Ophelia, alzandosi di scatto e con civetteria, disse che avrebbero conversato meglio se avessero messo un po’ di cibo nello stomaco. Per Max andava benissimo.

Mentre lei si affaccendava in cucina, lui diede una sbirciata in giro. Tutto era in ordine. Ad un certo punto, si era alzato e aveva dato un’occhiata ad uno scaffale pieno di statuette e libri. Ne prese uno. Lesse. Quando la sentì arrivare, non rimise al suo posto il libro, ma su un tavolino. Poi, prima di mangiare, Max chiese se poteva lavarsi le mani. Ophelia gli porse un asciugamano e gli mostrò dov’era il bagno. Anche qui Max rimase stupito dalla nitidezza e dall’ordine. Si asciugò le mani, posò l’asciugamano su un mobiletto e uscì.

Ophelia nel frattempo aveva rimesso il libro al suo posto e preparato il tavolo nella sala da pranzo.

Quando finirono di mangiare la cenetta improvvisata, innaffiata di acqua e parole, lei sparecchiò il tavolo e poi passò l’aspirapolvere.

Più tardi Max sentì il bisogno di andare di nuovo in bagno. Trovò l’asciugamano, che lui aveva messo su un mobile, ripiegato e messo perfettamente in ordine su uno sgabello. Notò anche che, mentre parlavano, Ophelia era alla mercè d’un certo disagio interiore.

La loro conoscenza non andò oltre quella sera.

 Diedry

 Alcuni mesi dopo, Max incontrò in un pub Diedry, una vecchia conoscenza che viveva con una sua amica in un appartamento vicino a Melbourne. Avevano parlato di tante cose, e poi, non avendo altro da fare, avevano continuato a parlare e infine parlavano ma non sapevano più cosa si stessero dicendo. Avevano bevuto tutt’e due gin e coca. Max, ad un certo punto, senza il minimo desiderio, le aveva chiesto se voleva andare al cinema con lui in quel fine settimana, lei aveva rispotto di sì, tanto non aveva nient’altro da fare. E fu così che Max iniziò una nuova avventura sentimentale.

Qualche tempo dopo, Diedry era andata a vivere a casa sua a Kangaroo Ground. Con lei tutto si era realizzato in fretta, tutto era diventato facile: parole sesso gesti, solo che il sesso le parole e i gesti non erano sentiti, ma azionati come da un qualunque aggeggio meccanico. Non c’era entusiasmo nel loro rapporto, non c’era voglia di conoscersi più a fondo. Facevano all’amore, sì, ma non si sapeva se perché dovevano farlo o per altro. Insomma, non c’era la voglia di assaporare qualche frutto tropicale di quella sorta di isola vergine che dividevano.

E non solo. Diedry era più disordinata e negligente di Max. La casa era diventata ancora più caotica e sporca di prima che arrivasse lei.

Nelle prime settimane Max ce l’aveva messa tutta per motivarla, ma Diedry continuava ad essere fredda, indifferente. Aveva solo il gesto, un gesto molle, sfibrato. Di sicuro le mancava la passione, sembrava essere incapace di dire sì o no con gusto, con convinzione, con certezza in tutto quello che diceva e faceva. Non era mai pienamente conscia delle sue azioni. Max, dopo un po’, smise di volerla cambiare e si adeguò a lei.

Il loro vivere insieme gradualmente divenne una routine insopportabile. Niente li faceva esultare, niente li gravava di pena, vegetavano nella quotidianità. Col tempo, quel modo di vivere era diventato implacabile, faceva sentir loro il vuoto dell’esistenza in modo ancora più forte di quand’erano soli. L’insoddisfazione s’impossessò di quelle due anime.

Infine, più per istinto di sopravvivenza che per altro, la loro noia aveva preso la forma di piccole accuse, capricci, recriminazioni, battibecchi. Questi litigi divennero pian piano una spirale allucinante e il loro stare insieme divenne vieppiù impossibile. Decisero di separarsi. Lo fecero ancora più in fretta del tempo impiegato a mettersi insieme.

Diedry era ritornata a vivere con la sua amica. Aveva conosciuto altri uomini nella sua vita prima di Max, ma non era mai andata a vivere con nessuno di loro. L’esperienza con lui era stata diversa. Max era stato il primo uomo che l’aveva vista svestirsi la sera e rivestirsi la mattina, il primo uomo che aveva tenuto la sua testa sopra il suo petto mentre lei dormiva, il primo uomo che le aveva detto, quando un giorno non si era sentita bene:

“Non andare a lavorare oggi, stai a casa e riposati, penserò io a tutto.”

Era così semplice vivere con lui, eppure, eppure, per quel poco che erano vissuti insieme, erano riusciti ad annoiarsi così tanto da sentirsi letteralmente morti alla vita.

Janice

Qualche tempo dopo l’avventura Diedry, Max era andato a vedere l’“Ultimo tango a Parigi,“ di Bertolucci. Di fianco a lui, nonostante ci fossero tanti altri posti liberi, era andata a sedersi la donna che aveva visto in piedi all’entrata del cinema. Era più vicina alla quarantina che alla trentina. Si era sistemata nella poltroncina e si era messa a fissare lo schermo privo di immagini, il film non era ancora incominciato.

Più tardi, mentre scorreva sullo schermo una scena sensuale, Max sentì una mano afferrargli il pene. Capì di chi poteva essere, dato che al suo fianco sedeva solo lei. La guardò. Si guardarono. Lei gli fece un sorriso, lui non lo contraccambiò. Però, proprio in quel modo? Non gli era mai successa una cosa del genere. Nella fila in cui erano seduti non c’era altra gente, e nel resto della sala solo poche persone sparse qua e là.

Max, guardò una volta ancora la donna, poi prese la mano che stringeva il suo sesso e gliela tolse. In seguito, senza aspettare la fine del film, si alzò e uscì. Lei lo seguì.

“Allora andiamo a casa mia,” disse l’acchiappa cazzi non appena fuori dal cinema.

Max pensò, dato che gli era venuta in mente Ophelia, che in quell’ultimo tempo non erano solo gli uomini ad invitare le donne a casa loro, ma anche le donne lo facevano coi maschi. Le cose stavano cambiando in fretta.

La signora portava un vestito scollato, lungo, dentro il quale si nascondevano un bel corpo e un seno stupendo. Una collana di perle le pendeva dal collo. Aveva l’aria d’una donna benestante.

“Dove abiti?” chiese lui.

“A Toorak,” rispose lei.

“Sei in macchina?”

“Io sì.”

“Anch’io.”

“Vai a prendere la tua e io andrò a prendere la mia e c’incontriamo qui di fronte al cinema. Poi mi segui,” disse lei.

“Va bene,” fece lui.

Quando Max arrivò al luogo indicato, vide una Peugeot decappottabile. Dal finestrino sporse una mano indicandogli di seguirla. Lo fece, però con molta difficoltà. La donna andava molto forte.

Eppure, nonostante lo stile, non riusciva a vedere nulla di strano in tutta quella faccenda con quella donna di cui ignorava ancora il nome. Lui vedeva solo ch’era alta, elegante, sexy. E poi, non si sapeva mai; e poi, che importava come s’incontravano un uomo e una donna? Non c’era una regola. Le regole, in questo campo, valgono solo per gli imbecilli. Nel campo dell’amore, anche una che si siede vicino a te al cinema e ti afferra l’uccello potrebbe essere la tua donna ideale. Premeva sull’acceleratore per non perderla di vista.

La Peugeot si fermò davanti ad una villa. Lui parcheggiò la sua Toyota. La donna scese lesta dalla macchina, chiuse la portiera e andò ad aprire il cancello del giardino. La seguì in casa.

Non c’era nessuno. Lo portò nel salone e si accinse subito a offrirgli da bere: champagne francese. Ne fu contento. Lei, dopo aver brindato, si era tolta le scarpe ed era andata a sedersi su una poltrona di fronte a lui. Cercò i suoi occhi. Si fissarono. Poi, improvvisamente, gli buttò sul viso il resto dello champagne che c’era nel bicchiere e subito dopo si gettò su di lui come una lupa famelica e incominciò a svestirlo e a riempirlo di baci e morsi. Lui cercò di fare altrettanto. Dopo un po’ fu sopraffatto. Non riusciva a rispondere con la stessa passione alla furia di quei baci e di quei morsi. Anzi, i morsi gli facevano male. Ad un certo punto lei gli aprì nervosamente, molto nervosamente e in fretta, come un drogato in crisi di astinenza, lo zip e s’impossessò con tutt’e due le mani del suo sesso. Prima lo guardò, poi lo accarezzò, in seguito lo strinse forte e subito dopo se lo ficcò in bocca e non lo mollò fino a quando lui non eiaculò. Inghiottì il suo sperma con avidità. Continuò a succhiargli il pene anche quando questo era ormai nullo. Poi scattò in piedi, finì di svestirsi, spogliò anche lui e, afferrandogli una mano, disse: ”Vieni!” e lo portò nella camera da letto.

Trascorse con Janice, questo era il suo nome, una ricca ninfomane americana che viveva a Melbourne, tutto il resto di quella notte e il giorno seguente. Quando, la sera, a tarda notte, ritornò a casa sua, era senza uccello, non lo sentiva più, come se gliel’avessero tagliato e, inoltre, si sentiva sfinito, un rottame.

Dovevano essere all’incirca le dieci del mattino, quando il campanello si mise a squillare pazzamente. Max, ancora mezzo addormentato, si alzò e andò a vedere chi c’era. Janice, non appena aprì la porta, ignorando se fosse solo oppure no, si lanciò nelle sue braccia.

Non le resistette più di tre settimane. L’ultima notte trascorsa nella villa di quella femmina sessualmente scatenata, Max se l’era vista proprio brutta. Janice aveva versato nello champagne degli stimolanti molto forti e tra un amplesso e l’altro continuava a dargli da bere. Ad un certo punto Max si era sentito male, aveva iniziato a vomitare e a sentire freddo. Una febbre da cavallo in breve tempo s’impossessò di lui. La ninfomane, contrariata, chiamò comunque un dottore.

Per riprendersi, ci vollero cure mediche e un periodo di convalescenza. Per poco, quella mangiacazzi americana non l’aveva distrutto.

Dopo questa esperienza, a Max era venuta l’idea di smettere di cercare la sua donna ideale. Solo che non poteva. Il tempo stabilito non era ancora scaduto. Si sentiva schiavo, schiavo del suo contratto.

In quel periodo era estate, ma non faceva bel tempo. Pioveva spesso e c’erano dei temporali. Max era in vacanza. In un primo tempo, aveva pensato di andare a trovare i suoi genitori a Perth, ma poi aveva cambiato idea. Non aveva voglia di lasciare Melbourne.

Angelica

Una sera, un suo amico l’aveva invitato a cena. Lì Max incontrò Angelica, cugina del suo ospite. Tutti e due, prima ancora di aver finito di mangiare, erano già innamorati matti l’uno dell’altra.

Angelica era molto carina con le sue guance sempre rosse e un viso tondo come una mela. Era figlia unica e veniva dalla campagna. Era una ragazza volenterosa, vivace, forse un pochino troppo desiderosa di apprendere, imitare, di farsi accettare. Di professione era disegnatrice e, quando lui la conobbe, cercava lavoro e viveva sola in un monolocale. Max la incontrava spesso.

Fin dai primi incontri, Angelica aveva preso l’abitudine di copiare tutto quello che lui diceva e faceva, e lo faceva anche bene, una sorta di mimo naturale. Incredibile, nel giro di alcuni mesi, Max aveva un sosia in tutto e per tutto. Gli imitava la voce, usava sempre gli aggettivi e le espressioni che usava lui e cercava anche di pensare come lui. E non solo: copiava i suoi gesti e vestiva come lui. In poco tempo era diventata un altro Max.

Nel breve periodo in cui l’aveva conosciuta, si era così disamorato di quell’essere che lo copiava continuamente che, adirato e nauseato, decise di sparire e dalla vita di Angelica e da quella del suo amico.

Non celebrò questo fiasco sentimentale, non né sentì il bisogno.

Nel prossimo post: parte sesta

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