L’Italia analfabeta – post 10 (parte II)

 Cultura  –  in 2 parti  (II)

 

“E non solo questo, signor Cipollina,” riprese a dire Davos, “perché, vede, anche gli animali domestici,  i cavalli, i cani, i gatti, sono acculturati.”

“Ma cosa sta dicendo, signor Davos?” fece Cipollina sempre più stupito.

Uno dei suoi figli si era sposato con una ragazza molto bella, ma anche molto diversa da lui. Cipollina diceva di lei che non sapeva fare nulla: né crescere i figli, né prendersi cura della casa, né cucinare, né risparmiare, né niente; sapeva solo comprarsi vestiti e andare a fare la cretina in giro. Una vera catastrofe. Suo figlio stava diventando matto a causa di quella stangona e lui, il Cipollina, la odiava, e odiava anche suo figlio per essersi sposato con lei.

“Come, cosa sto dicendo?” disse Davos irritato, perché avrebbe voluto vestirsi in pace e riflettere un po’ su ciò che doveva fare quel giorno all’università.

“Lei non mi spiega nulla, se continua così”, fece Cipollina.

Solo il Duce era stato un uomo giusto e buono, a suo avviso, il resto gli faceva schifo. Il Duce gli aveva fatto scoprire il mondo davanti alla canna del fucile, prima durante la guerra in Etiopia e poi di nuovo durante la Seconda Guerra Mondiale. Ci aveva rimesso solo un occhio per le battaglie che aveva combattuto. Ma cos’era un occhio in cambio di tutto quello che aveva visto e sperimentato? Nulla. Una sciocchezza. Il fatto però di essersi battuto contro gli africani, quando lo raccontava, si vedeva che lo umiliava, ma lo raccontava lo stesso. “Noi,” diceva Cipollina prendendo lo studente dell’Università di Perugia per il braccio, “noi abbiamo fatto la guerra contro un popolo di morti di fame e di indifesi, mentre i tedeschi, i tedeschi hanno attaccato i giganti della Terra! Capisce, capisce lei cosa vuol dire questo?”

“Sì, ma i tedeschi hanno perso la guerra,” faceva Davos.

“Certo. Però, a loro, il coraggio, l’orgoglio, sono rimasti; a noi, invece, la vergogna e la vigliaccheria, ecco cosa ci sono rimaste!”

Una volta, Cipollina e un suo compagno d’armi, mentre erano d’ ispezione nei dintorni di Addis Abeba, in Etiopia, avevano sbirciato una disgraziata negra seminuda che girovagava in cerca di cibo tra le macerie d’un villaggio distrutto. A quella vista, i loro genitali si erano rizzati e i due soldati dell’esercito italiano si erano scambiati uno sguardo d’intesa e, data un’occhiata in giro e assicuratisi che non c’era nessuno, si erano lanciati sulla poveretta e l’avevano stuprata. Quando si erano saziati di quell’oggetto nero che non aveva opposto loro nessuna resistenza, si erano vestiti ed erano scappati via lasciando l’infelice relitto lì per terra.

“E sì,” balbettava Cipollina cercando di scolparsi, “la voglia in quei giorni non ci faceva rispettare nulla, nemmeno la volontà del Duce che proibiva ai soldati italiani di accoppiarsi con le femmine africane.”

“La cultura signor Cipollina,” riprese Davos, “è il cancro maligno e benigno che ci siamo costruiti con il nostro fare. La cultura è comprensione e incomprensione, bruttezza e bellezza, creatrice e distruttrice. Tutto quello che abbiamo fatto e disfatto lungo la nostra storia, è stato fatto e disfatto nel nome di questa parola. Come altro potrei spiegargliela? Si potrebbe dire che cultura  è tutto quello che compone le civiltà, la conoscenza, insomma tutto ciò che distingue gli esseri umani dalle bestie non addomesticate. Cultura è anche la nostra identità personale e nazionale, che ci distingue dagli altri popoli; cultura è potere, volontà di potenza, soprattutto questa. Il potere spesso detta il tipo di cultura che vuole adottare: cesarismo, inquisizione, napoleonismo, fascismo, nazismo, comunismo, yankismo.”

“Insomma, signor Davos”, berciò disperato e confuso Cipollina, “non c’è proprio un modo più semplice per spiegare questa benedetta parola?”.

La giornata dei Cipollina si riassumeva pressappoco così: lei lavorava in fabbrica sei giorni per settimana, lui si prendeva cura della casa, andava a fare la spesa, cucinava, lavava la biancheria, stirava, puliva e passava lo straccio tre volte al giorno nel bagno e nell’ingresso. Cipollina, infatti, svolgeva il ruolo d’una tipica massaia con un’incredibile naturalezza e abilità. La sera, mentre mangiavano -il loro cibo era pasta, trippa, spezzatino, legumi, pane, vino-, guardavano il piccolo schermo fino alle nove e mezzo al massimo, poi andavano a letto. Il giorno dopo era identico al precedente. Con quel loro modo di vivere, assomigliavano a dei perfetti vegetali: erano come rami d’un albero scossi dal vento che si allungano solo di quel tanto e non oltre, così i loro corpi si stendevano solo di quel tanto che necessitavano, e cioè dalla casa alla fabbrica di sigarette per la moglie e, per lui, dalla casa ai negozi della città; più oltre, sia lui che lei, non andavano. Insomma, nella vita di quei due esseri, solo il tempo e le stagioni cambiavano, loro invece si consumavano, ma non cambiavano quel loro stile di vita. L’unica variante era che la domenica litigavano, quando non si azzuffavano.

“Un modo più semplice?” disse Davos. “Sì, forse sì. Prenda le donne italiane. Abitualmente si sposano con un fusto; gli uomini con delle figone, suo figlio è la prova, ma raramente si sposano perché hanno delle affinità, sensibilità, ideali, interessi culturali e intellettuali in comune. L’amore, per loro, è grandi culi!”

“Ma di cosa sta cianciando ora, signor Davos?” fece Cipollina ancora più disperato e confuso di quanto mai lo era stato prima.

Davos, che non voleva arrivare all’università in ritardo, disse: “Signor Cipollina, cultura è tutto quello che lei mi ha raccontato da quando sono venuto ad abitare in casa sua. Cultura è anche passare lo straccio tre volte al giorno nel bagno e nell’ingresso, cultura è stuprare una povera negra e fare la guerra, cultura è quando lei si fa una sega guardando le ragazze dalla finestra. Quando lei parla, signor Cipollina, lei parla “cultura”, e cultura è tutto quello che lei fa pensa e dice. Lei: è cultura.”

“Ma signor …”

“Un’altra volta,” finì per dirgli Davos chiudendo la porta d’entrata dietro di sé.

Tratto da “Ribelli non si nasce”

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