Il salto, cenno autobiografico

 

 

 

Compiuti i sedici anni, confuso e smarrito fra tanti desideri, incomprensioni e idee, ma deciso e contro la ferma volontà della Mamma, me ne sono andato via da casa, lasciando la mia famiglia, le mie bestie, la mia Timpa (montagna), i miei sogni da bambino e adolescente insieme al luogo dov’ero nato e vissuto fino ad allora (Pantaleo) e sono partito per il nord Italia.

A Torino ho dormito in garage freddi, malridotti, con la neve sul tetto e l’acqua che gocciolava dentro; ho abitato in case disastrate e in piena campagna dove non c’era un gabinetto, non c’era acqua potabile, non c’era pulizia, non c’era niente, solo muri scalcinati e un materasso sporco per terra sul quale si dormiva vestiti e sudici insieme ad altri straccioni.

Non mi piaceva lavorare in fabbrica, preferivo lavorare all’aria aperta e i cantieri edili facevano al mio caso e, in questo campo, il lavoro si trovava facilmente. Il primo l’ho trovato da un pazzo ma simpatico piccolo imprenditore romano che aveva preso in appalto la costruzione d’una villa in montagna. Ci portava lì, me e altri 3 disgraziati, ogni lunedì mattina in una camionetta della volkswagen che guidava lui stesso in quelle strade piene di curve e pericolose a tutto gas. Ci terrorizzava. Veniva poi a riprenderci il sabato sera.

Quando avevo guadagnato un po’ di soldi, ho lasciato il sudiciume in cui ero finito al mio arrivo a Torino e ho affittato una camera in un discreto edificio in corso Francia. La signora che me l’aveva affittata con colazione e cena era molto gentile. Teneva tutto pulito in casa, e poi lenzuola che odoravano di freschezza, camera riscaldata e si mangiava a tavola con forchetta, cucchiaio, coltello e tovagliolo! Questo cambiamento di residenza è stato per me un vero e proprio passare dalle stalle alle stelle.

Le prime lettere che ho scritto alla Mamma, non sono stato io a scriverle, ma la signora che mi affittava la camera. Non mi piaceva questa cosa, ma non avevo scelta, non sapevo scrivere. M’immaginavo la Mamma che anche lei, a sua volta, doveva andare dal prete per farsi leggere le mie lettere e farsi scrivere quelle che poi avrebbe spedito a me.

Torino, verso la fine degli anni Cinquanta, non si riduceva solo al mio lavoro con quel simpatico ma pazzo imprenditore romano e alla mia nuova e confortevole sistemazione in corso Francia. C’era dell’altro. Oltre a essere una città operosa e fredda, particolarmente d’inverno, c’era anche vita, tanta vita. Mi piaceva e mi piaceva anche molto, mi apriva gli occhi e svegliava in me un sapore mai provato prima, un sapore esoterico, inafferrabile ma pervasivo per un mondo che non conoscevo, un mondo che era ancora tutto da scoprire e in cui io agognavo di tuffarmi al più presto.

Il contrasto poi tra Nord e Sud, almeno per quello che ne capivo io in quei tempi, era shoccante, umiliante, drammatico. Com’era possibile tanta differenza? Si era pur sempre in Italia! Eppure la realtà era questa. I due posti, il nord e il sud, erano così diversi l’un dall’altro da fare rabbrividire anche il più avveduto degli antropologi.

Non parlavo italiano quando sono arrivato a Torino. Il mio corredo linguistico era il dialetto e, inoltre, avevo imparato ad imitare il linguaggio della natura e degli animali che per me era un altro modo di esprimermi, ma non a Torino! In ogni modo, e questo mi ha molto sorpreso, riuscivo a imparare in fretta l’italiano. Con chiunque balbettavo in quei giorni, per me era sempre una lezione di lingua. Ce la mettevo tutta a imitare l’accento e a cercare di capire il senso delle parole.

Il mio primo amore per una ragazza emiliana è finito dolorosamente. Lei era una semi-analfabeta, io ero un semi-analfabeta, per non dire che eravamo due analfabeti. Quale futuro per noi? Quale per i nostri figli se ne avessimo avuti? Avevo ormai deciso, volevo andare a scuola, studiare, capire, capire il mondo e gli uomini. Ero pronto a iniziare di nuovo da zero, dalla prima elementare. Non avevo mai dimenticato il trauma di quando la Mamma non mi aveva più mandato a scuola. Ora l’idea di poterla riprendere si era impossessata di me, era diventata la mia guida, la mia ambizione, la mia luce. Non so come dirlo, ma intuivo che non volevo morire un analfabeta. Tutto, ma non un analfabeta, e fu per questo che ho sacrificato il mio primo amore, il mio primo lutto del cuore.

Sotto le armi, per tutti coloro che non avevano conseguito la quinta elementare, era obbligatorio andare a scuola. Io ero uno di questi. Mentre imparavo l’italiano, per conto mio studiavo il francese con l’aiuto d’un dizionario bilingue – Ghiotti, dovrei averlo ancora questo dizionario – e leggevo quanto potevo di tutto quello che trovavo in giro o che i miei commilitoni mi prestavano: fumetti, libri, giornali, riviste. Ero ingordo di letture, di racconti, di vicende umane. Cercavo su un vecchio vocabolario che avevo comprato in una libreria a Trieste, le parole che non capivo.

Quando il maestro dell’esercito, poco prima di finire il servizio militare, mi consegnò la pagella della quinta elementare, disse: “Almeno con questa potrai fare lo spazzino!”

Una sera, alcuni anni dopo, a Parigi, in un drugstore vicino all’Arc de Triomphe, dove mi recavo il sabato sera a cenare prima di andare al cinema (il premio che mi concedevo dopo una settimana di lavoro e studio), mi era presa la voglia di fare un giro per il locale. Era grande e c’era tanta bella e luccicante merce dappertutto. Guardavo ogni cosa con meraviglia e piacere. Tutto brillava ai miei occhi, tutto mi sembrava irreale, fantastico, di un altro mondo. Ero finito, passo dopo passo, in libreria e, ammaliato da tutti quei libri, mi ero messo a guardarli avidamente. A un certo punto ne ho preso uno in mano, non per caso, ma perché mi aveva incuriosito. Era piazzato su un piccolo poggia libri di plastica e aveva una fascetta rossa con la scritta: “Lettre ouverte à un jeune homme”, di André Maurois. Ho letto il retro di copertina, ho letto la prima pagina, l’ho sfogliato leggendo qui e là e, più leggevo, più mi sentivo prigioniero della lettura. Sono andato alla cassa e l’ho comprato.

Quella sera non sono andato al cinema, sono ritornato a casa e, vestito, mi sono buttato sul letto con quel libro in mano e non l’ho mollato fino a quando non l’ho finito di leggere.

Di giorno lavoravo; di sera andavo a scuola. Volevo diventare geometra e, dopo, continuare a studiare da ingegnere. Volevo laurearmi, volevo fare soldi, comprarmi una Mercedes e, così armato, con laurea, soldi e Mercedes, andare prima a Trieste per dimostrare a quell’insegnante dell’esercito che io non ero diventato uno spazzino (con tutto il rispetto che ho oggi per i netturbini, allora la vedevo diversamente) e poi ritornare al mio paese per mostrare alla mia famiglia e ai vicini cos’ero riuscito a fare.

Non è andata così. Quella sera, a Parigi, dopo la lettura di “Lettre ouverte à un jeune homme”, mi era scoppiato in testa il torbido mondo che lo zio Carlo aveva svegliato in me quand’ero poco più che un bambino.

Avevo 5 o 6 anni. Erevamo in pieno inverno. Fuori faceva freddo e sul tetto della cucina si sentivano raffiche di vento e pioggia mista a grandine che lo bombardavano. Io e lo zio Carlo eravamo seduti in silenzio vicino al focolare. Era un silenzio inconsueto, un silenzio che diffondeva tensione nell’aria. Infatti, ad un certo punto, lo zio, di punto in bianco, mi assalì dicendo in dialetto:

“Lo sai, eh, lo sai che tu sei più ricco di me?”

“Non è vero, zio,” ho risposto pronto come se quella domanda me la fossi aspettata, “sei tu il più ricco.”

“Non intendo ricchezza materiale, soldi case terreni animali,” ha risposto lui tetro e con disgusto, “intendo ricchezza in età, in giovinezza, vita. Tu sei un ragazzino, io quasi un vecchio; tu hai tutta la vita davanti a te, io la fossa. Capisci?”

“No,” ho risposto.

“Peggio per te!” ha fatto lui sprezzante.

“La zia,” (sua moglie), ho detto io allora, “dice che dopo la morte andremo tutti in paradiso e lì vivremo per sempre.”

“Quindi capisci!,” ha quasi urlato lui con stizza. “E comunque non parlarmi delle stupidità di tua zia.”

“Stupidità?,” ho fatto io. Non l’avevo mai sentito parlare in quel modo della zia.

“Sì, stupidità!”

“Spiegami.”

“Non so spiegartelo.”

“Continuo a non capire.”

“Un giorno forse capirai. E ora stai zitto!” ha troncato lui, mettendosi, nervoso e arrabbiato ad attizzare il fuoco.

L’ho guardato, poi ho chinato la testa e non ho detto altro.

Lui neppure.

Nonostante la mia giovane età, questo episodio con lo zio Carlo mi scosse profondamente, suscitando in me domande che fino ad allora ignoravo: domande sulla vita, sul tempo, sulla morte, sull’esistenza o la non esistenza di Dio. Volevo risposte a questa mia improvvisa inquietudine interiore, ma non ne trovavo. Neppure lui, lo zio, anche quand’era più avvicinabile e meno scontroso, era in grado di rispondere alle mie insistenti e sentite domande. E intuivo, fortemente intuivo, che avrebbe tanto voluto sapermi rispondere.

Tutte quelle domande senza risposta riapparvero quella sera nella mia mente e con violenza via via che leggevo “Lettre ouverte à un jeune homme”. Questo libro mi aveva fatto riflettere molto, mi aveva fatto capire che quello che stavo studiando, la geometria e dopo l’ingegneria, non era quello che mi avrebbe permesso di capire i mondi esoterici e inafferrabili che gironzolavano nella mia testa e tanto meno di scoprire i misteri che l’esistenza e il mondo nascondevano.

Da quella sera ho smesso di andare alla scuola che stavo andando, ho smesso di voler diventare prima geometra e poi ingegnere, smesso di voler fare soldi, smesso di volermi comprare una Mercedes, di voler ritornare a Trieste e al paese e mi sono buttato, anima e corpo, nella lettura di libri che rispondevano ai richiami della mia passione e a studiare lingue, che mi piacevano molto, e letteratura.

In seguito, crescendo crescendo, ho scoperto che era più facile studiare le lingue vivendo nei luoghi dove erano parlate. È quello che ho fatto. Ne ho imparate parecchie e ho viaggiato tanto. Per imparare l’inglese sono andato in Australia; il tedesco in Germania; il danese in Danimarca; lo spagnolo in Spagna. Mi è successo, quando l’idea mi diveniva ossessiva, di lasciare un paese per andare in un altro senza un soldo in tasca e senza conoscenze. Arrivato a destinazione, comunicando come meglio potevo, mi mettevo subito all’opera: prima mi cercavo un lavoro, poi un posto dove dormire e in seguito una scuola di lingue.

Ad un certo punto mi sono accorto che, anche se amavo molto le lingue e la letteratura, non saziavano comunque la mia fame di conoscenza. Avvertivo che mi mancava qualcosa, mi mancava un altro tipo di sapere, un sapere fatto di cose concrete e meno astratto. Ed è stato così, anche se in modo superficiale, che ho aggiunto ai miei studi linguistici e letterari l’astronomia, la biologia e l’evoluzione darwiniana. Seguivo, oltre ai miei corsi serali abituali, conferenze e convegni di mio interesse dove e come potevo. Leggevo libri, tanti, tutti quelli che prendevo in prestito dalle biblioteche o che potevo comprarmi. Gradualmente, la scuola serale, i convegni, le conferenze, le letture e le mie riflessioni, senza che me ne rendessi conto, mi avevano rubato il cervello, cambiato: io non ero più io.

Ricordo che in Australia, la sera dopo il lavoro, facevo chilometri e chilometri con il bus in una strada lunga dritta e zeppa di sali e scendi per seguire un corso di antropologia all’Università di Monash. Più d’una volta, la sera al ritorno, quand’ero stanco morto, mi capitava di dormire sul bus e l’autista, che sapeva dove dovevo scendere, alla mia fermata mi scuoteva dicendo ad alta voce: “It’s time to wake up!” “È ora di svegliarsi!” E io, preso d’assalto da quelle parole, schizzavo fuori dal bus come un proiettile.

Qualche tempo dopo, verso l’inizio degli anni Settanta, all’Università di Melbourne, a un seminario sul big bang,ho incontrato Roger, uno studente americano del Kansas. Abbiamo fatto amicizia e col tempo iniziammo anche a frequentarci. Anche lui lavorava, ma solo part-time. Era sempre squattrinato. Diceva che quei quattro soldi che guadagnava non gli bastavano a pagarsi l’affitto dell’alloggio in cui abitava. Roger aveva il dono della parola e gli piaceva parlare. Mi parlava dell’America, del Kansas, della bancarotta che aveva fatto suo padre. Studiava filosofia. Mi parlava tanto di questa materia. L’aveva nel cuore, nell’anima, dappertutto nel corpo. Secondo lui la scienza ci spiegava com’era fatto il mondo; la filosofia ci insegnava come vivere e se la vita aveva o non aveva un senso. Mi affascinava sentirlo parlare di queste e di tante altre cose. Mi sentivo attratto e più me ne parlava, più mi coinvolgeva e più mi rapiva. Grazie a lui, quando potevo, seguivo anche dei corsi di filosofia al Council of Adult Education. Mi piaceva, in particolar modo, andare a congressi tenuti da filosofi che parlavano dei loro studi, lavori, ricerche.

Io? Non sapevo più chi ero!

 

 

 

 

 

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