Fiori di sierra, romanzo, i fantasmi della fanciullezza, parte prima (7)

VII

Sono le tre del pomeriggio. Nicolò ferma la macchina sulla piccola piazza spoglia, prende un mazzo di rose dal sedile, esce, chiude la porta. Dà un’occhiata in giro, nessuno; fa una decina di metri, entra nel luogo del silenzio, si avvia per un vialetto.

I cipressi sono alti ai lati delle logore mura di cinta e hanno un insolito aspetto. Il vento li agita, solleva uno strano mormorìo. Un tempo gli avevano ispirato tanta paura. Ancora oggi sente che risvegliano in lui un certo disagio. Strano, pensa, perché ne aveva visti tanti all’estero senza mai avvertire la stessa sensazione.

Continua ad avanzare guardando a dritta e a manca. Scorge la scritta “D’Alessio Concetta”. Si avvicina, si ferma davanti a quel tenue rilievo di sabbia sormontato da una piccola croce. Né erba né fiori freschi o appassiti la coprono. Sola nell’oblìo e nel silenzio della dimenticata fossa “ella” giace. Le sue mani non brandiscono più lo scudiscio, né la sua bocca grida: “Io ti ho dato la vita e io te la toglierò!” Di quel corpo tanto forte e indiavolato, è rimasto ora unicamente lo scheletro, il misero relitto d’un essere scomparso.

Lì nella terra polverosa

la terra della dimenticanza

lì nel recinto delle appartate croci

dove né l’alba né il tramonto si vedono più

lì il tuo infelice scheletro

in attesa di scomparire per sempre.

Nicolò posa su quel cumulo di terra le rose rosse che ha con sé, cerca di raccogliersi, di ricordare.

“Sventurata!” inizia, e la sua voce viva e tagliente sembra penetrare nel suolo e raggiungere le ossa della madre. “La tua specie continua a ripetersi mettendo al mondo figli per continuare a dare da mangiare ai lupi. Cos’altro potreste fare se non questo? Se almeno sapeste per chi e per quale ragione li fate, sarebbe già qualcosa. Ma non lo sapete. L’istinto cieco e animalesco di riproduzione vi domina e costumi vecchi e barbari offuscano il senso delle vostre azioni.

“Infelice! Da viva non hai fatto altro che sgobbare come un mulo e nonostante ciò a casa si moriva di fame. Così, mentre tu ti rodevi, sfacchinavi, scudisciavi, il ‘signore’ banchettava e si vantava.

“Povera te, neppure l’amore hai conosciuto: copulavi per fare figli, che poi aggredivi e bastonavi. Tu non sei venuta al mondo per le gioie della vita, ma per piegare la schiena e tribolare.

“Ricordi, ricordi quella volta che non toccammo cibo per tre giorni? Avevi bussato a tante porte, però, ahimé, erano tempi duri, sempre tempi duri per i poveri. Allora, per non morire di fame, hai fatto un ultimo tentativo, sei andata da ‘lui’ a domandare un lavoro e un piccolo prestito per comprare a noi, i tuoi figli, un pezzo di pane. E ‘lui’, come ti ha ricevuto?

“Quando sei ritornata a casa quella sera, eri tutta in subbuglio, graffiata, avevi la veste strappata, ancora con le lacrime agli occhi e non avevi ottenuto né lavoro né prestito né pane né niente. Per giustificare quel tuo aspetto, hai raccontato che eri caduta. Ti ho creduta allora, però, più tardi, quando gli occhi incominciarono a vedere e la mente a ragionare, come, come avrei potuto continuare a credere a quello che tu avevi raccontato?

“È vero che sei sempre stata spietata con me, che nel mio cuore non hai fatto crescere amore, ma risentimento e odio, eppure, nonostante ciò, nonostante la tua durezza nei miei confronti, non sono mai riuscito a odiarti veramente e tanto meno a perdonare a quel ‘porco’ l’affronto e il male che ti ha fatto.

“Tu, madre, tu avevi messo a favore della nostra sopravvivenza il tuo onore, il tuo orgoglio di donna povera e sfortunata ma onesta, e ‘lui’, ‘lui!’, come ti ha ricevuto? Può, un essere che appartiene alla specie umana, comportarsi più indegnamente, diventare più spregevole?

“Cose strane, mamma, si nascondono nel profondo del nostro essere, cose che non si dimenticano facilmente, cose che ci perseguitano ovunque siamo e a qualsiasi età, cose che sono dure a morire. Anzi, non muoiono mai. Ci segnano a vita. Ma tu, tu eri nata per soffrire, perché è così che altri avevano deciso per te.

“Qualcuno si salva, dici tu, riesce a liberarsi dalle catene, a fare strada, fortuna. Bella roba, bella scalata, viva l’intrepido! Non ti rendi conto però, della battaglia che deve prima affrontare? E, infine, per diventare chi? Un altro lupo?

“Ah, i tuoi ruggiti, le tue botte; ah, le mie grida, la mia rabbia!”

Nicolò, poco dopo, prese congedo da quel ricordo. Quando stava per uscire, si trovò in bocca queste parole:

Oh voi anime del buio

ormai da tempo finite nell’oblìo,

destino tanto dolce quanto ingrato

al quale nessun mortale può sfuggire.

 

 

 

 

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