Fiori di sierra, romanzo, la vita all’estero, parte seconda (13)

XIII

“È squisito questo capretto,” fa Nicolò.

“Sono contento che ti piaccia,” dice Amedeo, di nuovo di buon umore.

“Non solo a me, spero.”

“Affatto. Io me lo godo due volte: la prima perché adoro il capretto e la seconda perché mi piace mangiare con te.”

“Anche a me.”

“Sei tu però quello che condisce le vivande con tante spezie, sembra che ad ogni boccata il gusto divenga più saporito, grazie al racconto della tua vita all’estero.”

“Se continui così mi fai arrossire,” fa Nicolò accingendosi a bere un sorso di vino.

“Vedi,” prosegue Amedeo, “a casa non si fanno altro che le consuete chiacchiere, che poi sono le chiacchiere delle chiacchiere sentite durante il giorno, un giorno che non finisce mai, sempre lo stesso, che dura una vita, una vita di chiacchiere. Lucia è moglie, madre e massaia incomparabile, e lo resterà per il resto della sua vita. La conosco dentro e fuori, sopra e sotto, interamente, conosco anche i suoi sogni e le sue fantasie. Di lei non mi sorprendono più né i gesti né le parole. E fino ad un certo punto direi lo stesso per la gente di Calvario. Azioni, parole e movimenti che si ripetono fino alla nausea, fino alla morte. Tutto è come una campana, un rintocco che non fa che ripetere lo stesso suono, lo stesso din don all’infinito, e la vita non può essere come una campana: un perpetuo din don!”

“E non lo è, mio saggio cugino Amedeo,” dice Nicolò dopo aver inghiottito un altro pezzo di capretto. “Infatti, tutto cambia a una velocità vertiginosa, noi, la storia, la natura, ogni cosa.”

“Non qui da noi. Qui cambiano solo le stagioni, il resto è immutabile. Noi calvaresi siamo rimasti incastrati in un meccanismo dal quale non riusciamo più a svincolarci. Si direbbe che siamo vittime di qualche maledizione, di uno spirito diabolico.”

“E qui non sei più saggio, mio caro cugino, perché parli da superstizioso. Il fatto è che è tutto frutto d’una cultura castratrice, occultatrice, manipolatrice, machiavellica, terrorista, discriminante, che si autoelogia, che predica la Santa Ignoranza, una cultura che ha radici che affondano nel cancro dell’arretrato e del marcio. E uno a furia di specchiarsi in questo vecchiume, finisce per identificarsi.”

“Sei sempre più duro con la terra in cui sei nato.”

“Non con la terra, che è bella, anzi bellissima, ma con quelli che la sporcano e la impoveriscono,” corregge ancora Nicolò.

Amedeo lo guarda, storce il naso, dice cambiando discorso: “Sai Nicolò, io continuo a chiedermi per quale ragione tu sei ritornato a Calvario.”

“Per raccontarti la storia della mia vita, cugino mio. Unicamente per questo.”

“Se è così, che aspetti allora a riprenderla da dove l’hai lasciata?”

“Esattamente da dove l’ho lasciata,” risponde lui alzandosi per prendere un’altra bottiglia di vino.

“Ricordi dove sei rimasto la volta scorsa?” chiede Amedeo.

“A Mont Saint-Michel, in quel ristorante dove Sylvia aveva cominciato a ballare, cantare, spogliarsi, eccetera,” risponde lui.

“Corretto,” fa Amedeo.

E dopo un momento di raccoglimento, Nicolò riprende il racconto della sua vita all’estero.

“Quando ritornammo a Parigi, alla fine di quella indimenticabile vacanza, lasciai la mia camera per l’appartamento di Sylvia. Qualche tempo dopo, smisi anche di lavorare al night-club e, d’accordo con lei, ripresi gli studi all’università.

“Furono l’evoluzione cosmica e darwiniana e il materialismo storico ad accaparrarsi il mio cervello, questa volta. Non perdevo una lezione e leggevo quanto potevo su questi argomenti. Mi interessavano, mi prendevano. Finalmente stavo studiando qualcosa che sentivo in me come fosse un essere vivente, un essere che abitava nel mio intimo. Mi identificavo, riconoscevo in quelle idee, in quel processo storico.

“Era il fragore del big bang nella sua espansione; era il brusìo della specie nel suo divenire; era il rumore dirompente della storia, l’elevarsi dello spirito. In breve, era l’uomo e, infine, ero io, sempre io, in ogni angolo della terra, che mi vedevo affiorare, far capolino, in una interminabile sfilata di mutamenti e trasformazioni.

“E fu così, mio caro cugino Amedeo, che cominciai a capire quella strana signora chiamata Filosofia, quello strano fantasma chiamato Spirito, quella strana piovra chiamata Stato.

“Ad un certo punto, avevo il feeling di tenere sul palmo della mano il cuore palpitante della storia, di avere qualcosa di concreto sotto gli occhi. Non era più l’ippogrifo, l’utopia degli idealisti, il frugare nel cielo dei romantici, le superstizioni religiose, ma la realtà, la realtà per come si articolava e prendeva forma nel mondo. Tutto si stava svelando, tutto stava perdendo la sua enigmaticità.

“Infine, inevitabilmente, arrivai nel regno dei burattini. Qui, stranamente, m’illuminai: vidi tutto, capii tutto. L’enigma, se così vogliamo chiamarlo, non aveva più nulla di un enigma, ma era diventato una volgarità unica, una rozza e grottesca farsa. A questo punto la verità saltò fuori da tutte le parti. Vidi ogni cosa, le ombre, le macchie, il chiaroscuro, i recessi, i complotti; vidi tutto, tutto quello che c’era da vedere.

“Questa presa di coscienza, come una torcia puntata sul suo obiettivo, m’indicò i mostri che trafficavano nel regno dei burattini in tutta la loro mole. Era il delirio, la commedia, l’inumano. Incredibile l’impatto, Amedeo! Vidi il male, vidi i grandi assassini di tutti i tempi, vidi la malvagità, gli imbrogli, i soprusi, la manipolazione in azione, l’egoismo elevato ad un dio. Erano loro, loro, sempre loro, i grandi assassini travestiti in mille modi che scarrozzavano e spadroneggiavano lungo tutti i percorsi della storia.

“Com’era possibile, mi chiedevo, com’era possibile? Non riuscivo a crederci. Tutto è bianco o tutto è nero quando ti mancano gli strumenti della ragione, ma quando questi sono diventati la tua luce, la visione cambia radicalmente.

“Rifiutai, categoricamente rifiutai di riconoscermi con i mostri. La società poteva avere una o un milione di facce, ma io in quella mostruosità non mi vedevo affatto.

“Ancora e ancora, mi andavo chiedendo in quei giorni, com’era stato possibile che questi buffoni sanguinari, questi esseri immondi e maligni, scarrozzassero così impietosamente attraverso i secoli senza che nessuno li avesse mai fermati? Senza che nessuno avesse capito che erano loro, proprio loro, gli autori di ogni male e di ogni ingiustizia?

“Gina, la ragazza di Johannesburg, aveva ragione, sapeva: non c’è giustizia tra gli uomini, unicamente marciume.

“Ti dico solo che, dopo la mia presa di coscienza, pensai che bisognava combattere queste abominevoli creature, questi scimmioni crudeli e goffi, vestiti in abiti umani, e per farlo c’era un solo modo: un attacco frontale. Volevo sangue, il sangue dei mostri!”

A questo punto, Amedeo, un po’ irritato e un po’ confuso da quello che stava dicendo Nicolò, chiede: “C’è un modo più chiaro di descrivere i mostri?”

“Posso dirti che costoro”, risponde lui, “quando si viene al dunque, sanno fare tante cose ma, in particolare sanno ammazzare, arraffare, darsi nomi altisonanti, farti credere che il rosso è verde e il verde rosso, riscuotere tasse, pavoneggiarsi, fottere il mondo.”

“Capisco,” fa Amedeo, anche se non è sicuro di aver capito.

“Sylvia,” continua Nicolò, “quando intuì le mie intenzioni, seppe tenermi a bada sostenendo energicamente che dovevo prima finire i miei studi e solo dopo, se fossi rimasto ancora della stessa opinione, avrei potuto fare la guerra al mondo.

“Mi ci volle del tempo prima di cedere alla sua volontà. Davanti a Sylvia mi sentivo disarmato. Non avevo ancora affilato le armi per poterla combattere. Sapeva farmi ragionare, capire. Vinse lei. Mi arresi, deposi le armi, ma non la mia visione.

“In seguito, tra una cosa e l’altra, quel forte sentimento di rivolta ch’era esploso in me, si placò e lo studio, il piacere della riflessione filosofica, l’amore che nutrivo per la mia Signora, si impadronirono di me, mi cambiarono. Trascorsi un periodo in cui mi sentivo dolcemente assorbito dall’amore e dalla vita.

“Dopo che c’eravamo messi insieme, Sylvia voleva tornare a insegnare, non intendeva finire la sua vita alla Pension Bilingue. Scrisse a numerose scuole parigine per essere assunta come insegnante d’italiano, ma le risposte furono negative. Avrebbe potuto insegnare inglese in un collegio se l’avesse voluto, ma non volle. Continuò ancora e ancora a cercarsi un posto come professoressa d’italiano: inutile, non lo trovava. Iniziò ad annoiarsi, si sentiva insoddisfatta, frustrata. Leggere libri e gestire la pensione non le bastava più.

“Gradualmente, si era affacciata l’idea di ritornare a Sydney. Il suo paese aveva risvegliato in lei l’amore che aveva sempre nutrito per esso nonostante la lontananza. Certo c’ero io, e da me non si voleva separare.

“Cominciò a parlarmi dell’Australia, della sua storia, della gente e del clima. Mentre lei raccontava, non avevo altro di fronte ai miei occhi che quell’isola-continente con tutte le sue ricchezze naturali e sociali. L’idea di andarci insieme a Sylvia mi entusiasmava molto e non glielo nascosi. Ne fu contenta. Era anche convinta che, una volta là, avrei potuto continuare i miei studi e, in tre, quattro anni massimo, se avessi voluto, avrei potuto prendermi una laurea.

“Allora, anche se a malincuore, perché le pareva di fare un torto a Ronsard, Sylvia decise di vendere la Pension Bilingue. Poi decidemmo di sposarci e di trasferirci a Sydney.

“Ci sposammo in municipio un mercoledì mattina, verso la fine di ottobre. La giornata era calma, bella, piena di sole. Alcuni studenti e persone della Pension erano venuti a festeggiarci con dei mazzetti di fiori. Si era appena formato un piccolo crocchio intorno a noi prodigo di abbracci e congratulazioni, quando apparve Yvonne. Te la ricordi?”

“La moglie dell’ufficiale di marina?”

“Proprio lei.”

“Sì, me la ricordo.”

“Ebbene, per dire la verità, io non avevo ancora chiuso totalmente con lei. C’erano degli strascichi, qualche sporadico incontro. Quando poi le dissi che stavo per sposarmi e andarmene via, mollò la presa e volle sapere dove andavo e quando e dove e a che ora mi sposavo. Glielo dissi.

“Era apparsa il giorno del nostro matrimonio con un mazzo di rose rosse. Non ne avevo mai viste tante e così belle. Le diede a Sylvia e con sbalorditiva naturalezza l’abbracciò dicendo:

“Avevo comprato questi fiori per mia sorella che doveva sposarsi questa mattina, ma durante la notte ha cambiato idea. Le do a lei, signora, con tanti auguri!”

“A me diede un’occhiata, mi storse il muso, mi strinse comunque la mano e, com’era apparsa, così era sparita tra i passanti.

“Sylvia, lì per lì, non seppe cosa pensare di quei fiori e di quella storia. Mi guardò interrogativamente, alzò le spalle, sorrise, disse che Parigi era bella, perché era piena di sorprese e di gente eccentrica.

“Il nostro matrimonio fu semplice, molto semplice. Lo festeggiammo a casa nostra con amici e conoscenti. Verso sera arrivò Manuel, un pittore spagnolo che si era stabilito a Parigi. Ero in buoni rapporti con lui e di tanto in tanto ci giocavo a scacchi. Portò con sé la chitarra, ci cantò alcune canzoni e, più tardi, decidemmo di andare chez Charon, un simpatico ristorantino di Montmartre.

“Il padrone ci piazzò in una saletta, piazzò anche un vaso di fiori sul nostro tavolo. Sylvia esclamò: ‘Decisamente oggi è una giornata ricca di fiori!’

“E lo era stata.

“Lasciammo il ristorante che era quasi giorno, più festosi di quando eravamo arrivati. Per ritornare a casa dovevamo passare dal Sacre Coeur. Una voltà lì, ci bloccammo meravigliati: Parigi, piena di riverberi e nelle sue ultime ore di sonno, si stendeva a perdita d’occhio davanti a noi. La guardammo in silenzio. Manuel, mezzo brillo, ruppe quell’incantesimo declamando:

 

“Come es encantadora Paris

y come me gusta

sobretodo a esta hora de la madrugada.

Paris, tu eres una mujer ardiente

también cuando duermes.”1

 

“Poi mise la sua chitarra in posizione di combattimento e iniziò a farne vibrare le corde melodiose e a cantare. Facemmo eco e, intonando e chiacchierando, iniziammo a scendere la scalinata, ubriachi di vita.

“A casa, a letto, madida e dolce, Sylvia guardandomi negli occhi, disse: “Ti amo Nicolò, ti amo tanto.”

“Ti amo anch’io tantissimo, Sylvia” dissi a mia volta e subito dopo sentii che né spada né grandi onori né niente avrebbero potuto  trafiggere il mio cuore più profondamente delle sue parole. Non dissi altro, soltanto le mie braccia la cinsero dolcemente.

“Alcune settimane dopo, volammo verso Sydney. Arrivammo nella capitale del Nuovo Galles del Sud che era quasi l’inizio dell’estate. Non ti dico, un caldo, un sole che spaccava le pietre, un cielo sempre blu.

“Passammo i primi mesi prendendo bagni e girovagando per la città. I nostri corpi erano sempre più abbronzati. Sylvia voleva che io conoscessi bene Sydney e i suoi dintorni. Diceva che, nonostante fosse nata e cresciuta là, le sembrava, insieme a me, di scoprirla per la prima volta.

“Sydney è considerata una piccola New York. E lo è davvero. Tutte le volte che mi trovavo sotto uno dei suoi grattacieli e mi veniva da guardare in su, vedevo quel bestione livido e liscio innalzarsi nel cielo con tanta arroganza e distacco da farmi sentire meno d’un granello di sabbia. Ma non era tanto questo che mi sorprendeva di quella  città,  quanto  l’incredibile miscuglio di razze, di lingue, di aspetti: cinesi giapponesi indiani aborigeni indonesiani arabi europei. Anche a Parigi c’erano tante razze, ma a Parigi era diverso, non mi davano quella forte impressione di diversità che avvertivo là. Sembrava che tutte le facce germogliate dalle viscere della terra s’incontrassero e si mescolassero in quel luogo. Un vero e proprio caleidoscopio umano.

“Sylvia, se ricordi, aveva chiuso ogni rapporto con la famiglia e non voleva mettersi in contatto coi genitori se non quando ci fossimo sistemati. L’avevamo fatto. Avevamo prima affittato e poi comprato una casa in un centro residenziale vicino al mare. Era soleggiata, allegra, con un piccolo giardino di fronte e uno grande e pieno di erbacce dietro. C’era anche un garage. Dalla veranda si vedevano spiagge, scogliere, il porto, sempre pullulanti d’imbarcazioni. Nel giro di pochissimo tempo, ci eravamo organizzati e ambientati a Sydney. È incredibile, Amedeo, incredibile quello che uno può fare quando ha soldi, e soldi noi ne avevamo: la vendita della Pension Bilingue ce ne aveva fatti intascare un bel po’.

“Sylvia aveva la patente, io no. La presi. Comprammo anche la macchina, una Ford nuova.

“Una volta sistematasi, decise che era ora di rimettersi in contatto coi suoi. Questi si erano trasferiti in un paesetto a una cinquantina di chilometri da Sydney. Ci andammo.

“Quando li incontrai non riuscii loro simpatico e l’antipatia perdurò. Ma questo non creò problemi tra me e Sylvia. Lei stessa si sentiva sempre più a disagio insieme a loro. Dal momento che aveva detto ‘No!’ alle loro richieste e ‘No begging to the parents’, le cose erano drasticamente cambiate fra loro. Un vento gelido soffiava tra Sylvia e i suoi. Non li capiva più. Diceva che parlavano un’altra lingua, una lingua di cui non arrivava a cogliere il senso. Le erano diventati del tutto estranei. Quelle poche volte che andammo a trovarli, ritornando a casa, Sylvia era stata costretta a prendere dei calmanti.

“I rapporti con la famiglia ci vengono imposti,” soleva dire, “gli amici ce li scegliamo noi. Erano questi che contavano.”

“Dopo questa prima esperienza con la vita australiana, ricominciai a studiare e Sylvia a cercarsi un posto di lavoro come insegnante. Scrisse a parecchie scuole collegi università. Trovò un posto come maestra d’italiano. Era quello che voleva. Nella sua classe c’erano molti alunni italiani. Ne era contenta. Alcuni venivano a trovarla a casa. Erano figli di emigranti e, più che italiano, parlavano dialetto. Sylvia li correggeva, li aiutava, era molto paziente. Quel suo fare con loro, le ricordava tanto le nostre lezioni alla Pension Bilingue.

“Oltre all’insegnamento, aveva iniziato a tradurre in inglese un libro di un autore italiano. Scoprì che questo nuovo lavoro la appassionava molto. Mi parlava spesso di quello che traduceva. Voleva che il racconto fosse tradotto in inglese senza perdere nulla della sua versione originale. Una volta aveva telefonato al suo ex professore d’italiano e non trovandolo aveva provato al consolato italiano di Sydney, chiedendo se c’era qualcuno che potesse aiutarla a tradurre una frase idiomatica, perché lei non ci riusciva. Era molto scrupolosa, precisa, a volte addirittura pedante. Comunque, nonostante tutta la buona volontà che ci metteva, alla fine, dovette ammettere che il proverbio traduttore traditore era corretto.

“Mentre era presa dalla sua nuova attività, mi parlava spesso dell’Italia e della voglia di percorrerla tutta, da cima a fondo, insieme a me. Diceva:

“Dev’essere favoloso, Nicolò. Pensa a noi due in giro per le città italiane, a noi due nel tuo Paese natale a goderci i suoi paesaggi, i suoi capolavori, le sue bellezze; a noi due nei paesetti della Toscana, dell’Emìlia, a Venezia, a Roma e poi nei ristoranti a mangiare spaghetti e a bere vino. Dovrebbe essere favoloso, vero?”

“Voleva vedere dov’ero nato, vedere la casa sotto il picco sporgente, salire sull’Agave, e tutto e sempre e ogni passo insieme a me.

“Anche in una città come Sydney, che invita a vivere all’aperto, eravamo riusciti, dopo il primo impatto ambientale, a essere dei buoni pantofolai. Il nostro mondo, quello che più ci interessava, si trovava, in realtà, nella nostra casetta: libri musica studio lavoro discussione.

“Seguitavamo a volerci un sacco di bene, ad amarci, ad essere l’uno l’ombra dell’altro e viceversa. Io non sentivo il bisogno né la curiosità per un’altra donna e, considerando il mio passato, questo mi sorprendeva. Stavo bene, meravigliosamente bene insieme a Sylvia. Non mi annoiava mai. Era uno stimolo e ricchezza di vita continuo.

“Insomma, dire che c’erano comprensione, passione, amore, interessi comuni tra noi, dire che eravamo pazzamente innamorati l’un dell’altro, dire che ci volevamo bene, dire che eravamo l’uno l’ombra dell’altro, è veramente dire poco, troppo poco.

“Un’altra cosa che si andava consolidando fra di noi, era il piacere del palato. Non era stato mai così sensibile a Parigi. Non perché non mangiassimo o mangiassimo robaccia, ma era diverso. Invece a Sydney si era andato sviluppando un certo interesse per il cibo. Sylvia era creativa in cucina e si divertiva a preparare ricette classiche e piatti strampalati. Una volta alla settimana andavamo al ristorante; un’altra era lei a imbandire la tavola con un arrosto, spesso di agnello. Aveva una debolezza, la domenica mattina voleva la colazione servita a letto e, naturalmente, da me! Dato che di consueto era lei che cucinava, ero ben disposto a riconoscerle il diritto a questo lusso domenicale. Col tempo ci feci l’abitudine e ci prendevo persino piacere nel prepararla.

“Una sera, mentre cenavamo, mi accorsi che mi guardava, e continuava a farlo in un modo riflessivo, intenso. Le chiesi perché. Rispose:

“Se non guardo te, chi vuoi che guardi? Vedi, quando siamo qui soli nella nostra casetta, ho l’impressione di trovarmi su di una navicella spaziale centinaia di anni luce da tutti e da tutto. Tu per me sei la cosa più bella, la sola con cui posso vivere, comunicare, dare un senso alle cose e alla vita. Senza di te mi sentirei smarrita, smarrita nello spazio e tra le stelle. Mi rendo conto, acutamente conto, di quanto sei importante per me. Io ti guardo, tu mi guardi, ci guardiamo, e lo facciamo con occhi per i quali ci sono voluti miliardi di anni per essere creati, perfezionati e resi consapevoli di quello che vedono. A volte mi pare di vivere in un mondo di sogni. La vita è qualcosa di sbalorditivo e, più penso a questo prodigioso miracolo della natura, più tutto mi diviene prezioso. Io ti guardo, tu mi guardi, e più ci guardiamo, più tu mi diventi prezioso, infinitamente prezioso. Noi, qui, nello spazio e tra le stelle, noi, non meno dello spazio e delle stelle.

“Oh, Nicolò, Nicolò, sapessi, sapessi quanto mi sento realizzata, sapessi quant’è bello, bello essere vivi, voler bene, amare: che gioia! che delizia! che felicità!”

“Cosa avrei potuto dire, io, dopo le sue parole? Nulla. Era lei il poeta, lei la sorgente vitale, lei la luce che tutto illuminava.

“Avevamo preso l’abitudine di frequentare l’Opera House di Sydney, in particolare  durante l’inverno. Sylvia si era innamorata di quell’eccentrico edificio a conchiglia che sembra un grande veliero pronto a salpare. Esercitava un tale fascino su di lei che a volte, proprio come nelle sue danze bizzarre e solitarie (ce n’erano state altre dopo quella al ristorante del Mont Saint-Michel), si inebriava soltanto a contemplarlo, a guardarne le arcate, le vetrate, le schiene di pesce, gli spigoli illuminati dal sole al tramonto. Ci sedevamo su una delle sue terrazze, soli o insieme ad altri, a sorseggiare bibite e a chiacchierare sull’opera appena vista o sul concerto che stavamo per andare ad ascoltare.

“Avevamo preso anche l’abitudine di trascorrere interi pomeriggi in giardino seduti sotto un ombrellone, qualche volta sulla veranda, bevendo tè freddo e parlando di Parigi, di quella buonanima di Ronsard, di Sydney, degli australiani, di arte e dei libri che leggevamo.”

‘L’arte,” filosofava Sylvia, “è ancora in embrione. L’artista che conosciamo è giovane, molto giovane, è il bambino che si cerca nell’adulto. L’arte è forma contro caos e contenuto contro forma, ma, al nocciolo, nell’arte non c’è che l’istante: l’esperienza del momento, un momento che non cessa mai di cambiare, d’incantare. Nessuna arte è riuscita a spiegare la vita, tutt’al più ha tentato d’interpretarla: la vita è una perpetua meraviglia. Unicamente colui che vive con la costante consapevolezza di essere unico, trasforma la sua vita in arte, perché la vera arte inizia quando uno non soltanto si esprime da artista, ma vive come tale. L’arte e lo stile di vita sono la stessa e medesima cosa. Le persone evolute, l’arte la vivono, non la creano, sono diventate arte esse stesse. Il giorno in cui l’artista diventerà adulto, sarà anche la fine dell’arte. Questa continuerà nel gesto e nello stile.”

“Degli australiani diceva che erano meno scettici, per quello che concerneva le relazioni umane, degli europei. Meno scettici non perché fossero ingenui, ma perché, con meno scetticismo e maggior fiducia nel prossimo, si vive meglio. Un australiano crede a quello che uno gli dice. E non solo. Se gli è simpatico, se lo fa subito amico, gli apre la porta di casa sua. Però, attenzione! Lo tiene d’occhio. Se sgarra una volta, una volta sola, è finito. La sua amicizia uno deve conquistarsela dando prova di esserne degno.

“Adoravo questi pomeriggi, adoravo sentirla parlare. Le parole le uscivano di bocca senza fatica, in modo naturale, come un ruscello che scorre tra le colline. Sylvia era una poetessa, però ragionava anche da filosofa, quand’era necessario. Si esprimeva in modo conciso. Insisteva che chi usava cinque parole dove quattro erano sufficienti, era un mentecatto della lingua. E io sicuramente, cugino Amedeo, sono uno di questi, perché spesso mi rendo conto che avrei potuto raccontarti lo stesso evento con molte meno parole di quante ne ho usate.”

“Su, su,” fa Amedeo, “adesso non esageriamo. Diciamo che ti difendi, e questo è già qualcosa.”

“Grazie.”

“Non c’è di che.”

A questo punto del racconto, Nicolò si alza, fa qualche passo, si sgranchisce le gambe, torna a sedersi. Amedeo invece rimane al suo posto aspettando che il cugino riprenda a narrare. Infatti, subito dopo Nicolò continua col racconto della sua vita all’estero.

“Quanto a me, dopo essermi rimesso a studiare e aver superato alcuni esami di ammissione, m’iscrissi all’università di Sydney. L’inizio fu difficile. Il mio inglese lasciava a desiderare. Però, con l’aiuto di Sylvia riuscii a superare quest’ostacolo. Figurati che lei leggeva addirittura i libri dei miei corsi e poi li discutevamo insieme. Mi faceva scrivere anche dei riassunti. Diceva che era un ottimo esercizio per appropriarmi dell’argomento. Era instancabile. Non smetteva mai di aiutarmi e io, insieme a lei, non mi saziavo mai di studiare, d’imparare.

“Mi laureai in filosofia quattro anni dopo, come aveva già preannunciato Sylvia, con ottimi voti. Questo evento ci rese molto felici. Come puoi immaginare, io saltavo dalla gioia. Non per il pezzo di carta che avevo conquistato, anche se aveva un suo valore, ma per un milione di altre cose. Io, il Nicolello d’una volta; io, il pastorello; io, l’operaio, io, il barbone; io, laureato in filosofia! Non riuscivo a crederci, a convincermi che il laureato ero proprio io, eppure lo ero, lo ero!

“Per celebrare questo evento, invitammo molte persone tra cui alcuni dei miei professori. Ne furono onorati. Festeggiammo per tutta una settimana. Sylvia voleva scrivere un articolo su di me e inviarlo a un giornale per il quale aveva scritto prima di andare a Parigi. Glielo impedii dicendole che non avevamo bisogno di pubblicità, che la cosa più straordinaria non era tanto la mia laurea, quanto soprattutto noi due, io e lei e il nostro amore.

“Acconsentì, quindi niente articolo, niente pubblicità. Le cose più belle si vivono nel cuore, nell’intimità, nell’armonia di due anime e noi, di questa musica dolce e silenziosa, avevamo fatto da tempo un’arte.

“Qualche tempo dopo la mia laurea, decidemmo di partire. Pellegrinaggio a Parigi: fiori sulla tomba del Ronsard, un’occhiata alla Pension Bilingue, una passeggiata per il quartiere Latino, una sbirciatina in una libreria per vedere le ultime pubblicazioni di alcuni autori francesi che amavamo, e poi via verso il sud della Francia, Cannes.

“Restammo poco anche qui. Era inverno, il clima era brutto e trascorrere il tempo in albergo o nei ristoranti non ci piaceva affatto. In un primo momento volevamo venire in Italia, ma avevamo pochi giorni a disposizione. Rimandammo. Intendevamo farlo quando avessimo avuto almeno un mese a disposizione. Partimmo invece per l’India.

“A Calcutta, Sylvia mi comunicò che aspettava un bambino. Sapevo che amava i bambini. A Sydney, quand’era a casa, alcuni bimbi di gente del vicinato avevano preso l’abitudine di venirla a trovare. Non se li era fatti amici comprandogli regali, ma parlando con loro come una della loro età. Riusciva a farli ridere, scherzare, stare attenti a quello che diceva, a imitare lo stesso suo atteggiamento, a essere bambini e adulti bambini nel medesimo tempo. Non c’era dubbio, Sylvia, oltre che adorava i bambini, sapeva anche educarli e crescerli. Io gliel’avevo proposto più volte: se avesse voluto dei figli, non ci restava che provare. Diceva sempre che c’era tempo e che, ad ogni modo, questo non sarebbe avvenuto prima che io avessi terminato i miei studi.

“Quella sera a Calcutta, la notizia mi rese molto felice. Un figlio nostro! Un figlio dell’amore! Scoppiavo, letteralmente scoppiavo di gioia. Le promisi che da quel momento fino alla nascita del bambino, avrei fatto qualsiasi cosa pur di soddisfare ogni suo bisogno, ogni suo capriccio. Volevo fare tutto quello che potevo pur di darle ciò di cui necessitava e desiderava.

“Ritornammo in Australia in piena estate, un’estate di fuoco, di incendi. Un caldo tremendo opprimeva Sydney. Le spiagge erano gremite di gente, si stava bene soltanto nell’acqua. A casa avevamo installato un grande ventilatore che portavamo persino sulla veranda. Non sapevamo più dove nasconderci per evitare la sferza del sole. Quel calore, quello sconforto climatico, non finivano più in quell’estate.

“Una domenica, stanchi di arrostire a Sydney, decidemmo di prendere la macchina e di andare altrove. Partimmo presto e ci avviammo verso la costa. Non appena fuori città, un’arietta salubre fresca marina iniziò ad accarezzarci il viso. Non avevamo deciso dove saremmo andati. Sylvia suggerì di andare al monte Kosciusko vicino a Canberra. Mi piacque l’idea anche se il viaggio era un po’ lungo. Pensai che dovevamo farle di frequente quelle gite, perché ci costringevano ad alzarci di buon’ora e ci permettevano di vedere la natura al suo risveglio.

“Durante il viaggio, Sylvia mi raccontò del sentimento che via via la stava permeando: il sentimento di diventare madre. Era una sensazione nuova, particolare. Si sentiva a volte debole vulnerabile e altre una dea dal cui grembo dipendeva la sorte della razza umana. Soprattutto sentiva il bisogno di non essere contrariata, di essere capita, amata, e aveva tanta voglia di tenerezza. Si era messa a pensare al nome che avremmo potuto dare alla nostra creatura. Se fosse stata una bambina, avrebbe voluto chiamarla Cori, se fosse stato un bambino, Nicolò! E subito dopo si metteva a ridere dicendo:

“Non credo che sopporterei di avere due Nicolò in casa, però Nicolino sì, perché così potrei chiamarlo in molti modi: Nico, Colino, Lino e, quando farà il cattivo, Nicolaccio!”

“Ridevamo.

“E come facciamo con Nicolino quando saremo in viaggio?” le avevo chiesto io una volta smesso di ridere.

“Ce lo portiamo con noi; gli faremo vedere ciò che vediamo noi,” aveva risposto lei. “E il primo paese che gli faremo conoscere, dopo l’Australia, sarà l’Italia.”

“Non vedeva l’ora, in quell’ultimo periodo, di venirci. Si era anche messa d’accordo con l’editore per cui stava traducendo un romanzo che, una volta in Italia, avrebbe incontrato l’autore. Era entusiasta a quest’idea.

“Parlammo anche del mio lavoro. A giorni dovevo iniziare a lavorare per un’agenzia immobiliare. Sylvia, data la nostra agiatezza economica, aveva proposto che prendessi un dottorato in filosofia e poi, magari con qualche scritto e qualcos’altro, una cattedra all’università. Mi rifiutai. Volevo iniziare a lavorare, ma non nell’insegnamento. Ero stufo di aule, di professori, di campus. Mi bastava Sylvia. Li rappresentava tutti e li superava. Così avevo risposto a un annuncio sul giornale, il primo. L’agente, dopo avermi intervistato, disse che avrei fatto carriera, e io, come risposta, gli avevo detto che non vedevo l’ora d’incominciare.

“Il monte Kosciusko l’avevamo visto, sì, ma da lontano. Ci era bastato, avremmo avuto sempre il tempo di ritornare quando il clima fosse stato più favorevole.

“All’andata avevamo sostato alcune volte giusto per sgranchirci le gambe e berci una tazza di caffè. Al ritorno invece, stanchi e accaldati, ci fermammo lungo la strada costiera. Parcheggiammo la macchina in uno spiazzo, prendemmo con noi ciò che ci occorreva e andammo a piazzarci all’ombra di un grande eucalipto. Intorno a noi la campagna era arida e silenziosa. Solo le chiome degli alberi erano verdi, il resto tutto appassito.

“Dovevano essere le tre del pomeriggio. Avevamo viaggiato molto. Non avevamo ancora mangiato ed eravamo affamati. Sylvia decise che avremmo consumato lì il pranzo che ci eravamo portati con noi. Ci accomodammo vicino a un muretto di pietra, raccogliemmo la legna, accendemmo il fuoco senza curarci se fosse proibito o no. Quando la brace fu pronta, io arrostii la carne, lei preparò il resto su una coperta distesa per terra. Bevemmo e mangiammo con appetito, come d’altronde facevamo sempre. Poi ci sdraiammo. E, guarda un po’, cosa c’era sui rami dell’eucalipto? Un Koala! Era il primo che vedevo libero. Facemmo chiasso per attirare la sua attenzione. Ci riuscimmo, ma non per molto, perché il signore di quell’albero ben presto ci ignorò. Seguimmo il suo esempio, ci sdraiammo di nuovo.

“Il cibo, l’alcool, il caldo, il lungo viaggio e tutto il resto ci avevano appesantiti, intorpiditi. Ci lasciammo andare, ci addormentammo. Non so per quanto tempo, so solo che fui svegliato di colpo da un terribile grido. Feci appena in tempo a vedere Sylvia strapparsi dal collo un grande ragno nero e scaraventarlo via.”

“Mi ha morso,” disse, “ed è uno di quelli velenosi. Lo conosco.”

“Per qualche secondo rimasi incantato, di gelo. Avevo sentito parlare del micidiale morso di alcuni ragni. Ora era capitato a noi.

“Sylvia si era messa a tremare e a fissarmi con un’espressione che non le avevo mai visto prima. Di solito era svelta a decidere cosa fare in certe situazioni. Quella volta rimase paralizzata, muta. Mi guardava con uno sguardo inebetito, che faceva domande, esprimeva paura.

“Non appena, e fu questione di secondi, la drammaticità di quello che era capitato a Sylvia mi divenne chiara, le accennai che dovevamo cercare un dottore. Senza perdere altro tempo, l’afferro per la mano, la tiro su e insieme cominciamo a correre verso l’automobile, un trecento metri lontana da noi, lasciando tutto il resto sotto l’eucalipto.

“È meno veloce di me, ma ciò non mi impedisce, nel panico, quasi di trascinarla. Quando chiudo la portiera, mi accorgo che, nella corsa, si è ferita a un piede, sanguina.

“Non ho mai guidato tanto spericolatamente in vita mia. Di quando in quando davo una sbirciata a lei che si grattava lì dove l’insetto l’aveva punta. Era sempre più pallida, sudava, ed era indifferente alla mia ansia e alla mia guida. Sylvia era sicuramente consapevole delle possibili conseguenze e ciò la terrorizzava.

“Al primo posto abitato mi fermo. Mi dicono che devo andare al prossimo luogo abitato, Botany Bay, per trovare un dottore. Accelero. Corro col clacson premuto quando attraverso piccoli agglomerati; sono un pericolo pubblico e ne prendo atto, ma, a dire la verità, me ne frego. Era Sylvia che m’importava e per lei avrei fatto qualsiasi cosa. Sylvia, la mia Sylvia, lì accanto a me, sbatacchiata a destra e a sinistra, ad ogni curva, sorpasso, frenata.

“Ogni secondo, però, può essere importante, determinante. Premo ancora di più sull’acceleratore, al massimo. La Ford sembra volare. Se ci fosse stato un incidente, un brutto incidente, ebbene, sarei finito anch’io lì con lei, insieme!

“Sfreccio deciso, faccio curve e sorpassi azzardati. Qualcuno mi clacsona. Non ci penso neppure. Mi clacsonano altri. Come se non li sentissi. Evito un massacro ad un incrocio. L’auto sembra non toccare terra. Vola. Continuo a divorare la strada.

“In quella corsa precipitosa per la vita, almeno così stavo vivendo quei momenti, c’erano bagliori che mi dicevano: e se Sylvia si è sbagliata? E se non è stato un ragno velenoso a morderla, perché correre così? Perché rischiare un incidente? Ma come facevo a esserne sicuro? Filavo ancora di più. Volavo!

“Arrivo, finalmente, al posto indicato. M’indirizzano da un medico. Non c’è, è domenica, ma c’è una clinica non lontano, là c’è sempre qualche dottore. Corremmo. Il dottore c’era. La guarda, ci guarda: lui tanto calmo, noi tanto terrorizzati. L’esperto, dopo aver sentito il nostro racconto, dice che il ragno è una vedova nera, la peggiore della sua specie. Sembra inoltre che l’abbia punta su un vaso sanguigno, questo complica le cose. Le somministra subito l’antidoto. Deve muoversi il meno possibile per non fare circolare in fretta il veleno. Quando il dottore dice questo, divento ancora più pallido. L’avevo tanto affaticata dimenata sbatacchiata. Ma cosa ne sapevo, io?”

“Non è necessario allarmarsi,” dice lui, “è giovane, ce la farà. Per il momento deve riposare, rimanere sola,”

“Mi dice che posso andarmene a casa e ritornare l’indomani. Gli faccio capire che preferisco restare lì ad aspettarla fino a quando non si sia rimessa.

“Come vuole,” fa lui.

“Forse stavo esagerando, forse avevo più paura io di lei, forse era soltanto un brutto sogno e risvegliandomi tutto sarebbe ritornato come prima. E poi perché drammatizzavo così tanto? Certo, avevo sentito parlare di quelle bestiacce, e con questo? Niente, cercavo, cercavo disperatamente un qualcosa che facesse terminare quell’incubo, ma non trovavo nulla. D’altro canto, come potevo smentire la realtà? Mi veniva da impazzire.

“Mi ero tanto aggrappato a Sylvia in tutti quegli anni e nonostante conoscessi tanta gente, amici miei e suoi, in realtà ero solo. Lei per me popolava il mondo, lo illuminava, gli dava un significato. In ogni suo angolo, goccia d’acqua, zolla di terra, brezza, lì c’era il suo volto serio scherzoso ironico sorridente malinconico sensuale, pieno di vita, di amore. Sylvia era il mio universo.

“Passo la notte in un albergo. Il mattino, quando la rivedo, sembra star bene. Ha un aspetto più rilassato e tranquillo della sera prima.

“Non è così, però, il giorno successivo. Ha il respiro affannoso, dolori che le scuotono il corpo, spasmi muscolari, trema. La guardo, mi guarda, ci guardiamo. Ricordo con un sussulto le sue parole:

“Io ti guardo, tu mi guardi, e più ci guardiamo, più tu mi diventi prezioso, infinitamente prezioso. Noi, qui, nello spazio e tra le stelle, noi, non meno dello spazio e delle stelle.

“Oh Nicolò, Nicolò, sapessi quanto sono felice, sapessi quant’è bello, bello essere vivi, voler bene, amare: che gioia! che delizia! che felicità!”

“E ora? mi chiedo mentalmente.

“Sylvia mi indica la pancia con un gesto. Le faccio capire che lei viene prima. Sorride. Sorrido anch’io, ma in verità sono molto preoccupato, agitato. Non voglio esserlo, ma è difficile nasconderle questa mia paura.

“Trascorro le notti in albergo senza chiudere occhio. Cammino per la stanza come un pazzo. Penso tutto il tempo a Sylvia, ma non so cosa fare per aiutarla, per guarirla, per portarmela a casa.

“I dottori continuano a fare l’impossibile per salvarla. Arriva anche un esperto da Sydney. La visita. Dice che ce la farà. Di stare tranquilli.

“Io non vado a trovarla quando sono troppo impensierito, nervoso. Non desidero caricarla anche delle mie preoccupazioni. Vado invece a camminare nei dintorni di quel luogo, a gridare in un parco lì vicino.

“Sto con lei tutte le volte che me lo permettono, che sono meno inquieto. Mi siedo vicino al suo lettino. È sempre e comunque un momento difficile questo, carico di tensione. Ti si mozza il fiato; ti si gonfia il petto; ti prende l’angoscia. La guardi, pensi (pensiero inevitabile): forse sta per non essere più un essere. Ti viene da scoppiare. Riesci a controllarti. Riprendi fiato, puoi di nuovo guardare il suo viso. Questo, sempre colorito e bello, si fa sempre più pallido giorno dopo giorno e la sua espressione più cupa.

“Parliamo di questo e di quello, però le sue parole non sono più le sue parole e neppure le mie sono le mie. Qualcosa che ignoravamo, qualcosa su cui non avevamo potere si stava insediando in noi, ci stava cambiando.

“Una volta, mentre sono lì accanto a lei, mi prende la mano, mi fissa, dice:

“Sono spacciata Nicolò, lo sento. I dottori continuano a dire che ce la farò, ma questo è solo un loro modo di dire. Sento che sono agli sgoccioli. E sento anche che lo stesso destino, inevitabilmente, toccherà a Nicolino” e mi mostra con gli occhi la pancia bella rotonda. Prosegue: “So che non c’è una via regia dove vita e morte s’incontrano, ma andarsene in questo modo mi sembra uno scherzo.”

“Stupidaggini!” le faccio. “I dottori hanno detto che ce la farai e il loro non è un modo di dire. Fra qualche giorno ti porterò a casa. Tu vivrai per sempre!”

“Sorride, fa: “Avrei voluto fare ancora molte cose insieme a te.”

“Le faremo.”

“Sono stata fortunata a conoscerti. Quanta felicità mi hai dato, quante volte hai saziato il mio cuore.”

“E tu il mio.”

“Sai, e questo è veramente fantastico, con certe persone bastano pochi giorni insieme per riempire una vita e tu non solo hai riempito la mia, me l’hai anche colmata.”

“E tu la mia.”

“Siamo stati fortunati.”

“E continueremo ad esserlo.”

“Mi guarda. Sorride. Sorrise per tutto il tempo che rimasi lì con lei quella volta. Sembrava che non sapesse fare altro che sorridere.

“Hai fatto una corsa stupenda domenica,” mi dice quando la rivedo. “Nessuno, però, corre più veloce della morte.”

“Ti prego Sylvia,” faccio io al colmo della disperazione, “non dire sciocchezze.”

“E lei: “Non ho aspettato di trovarmi sul letto di morte per godermi la vita, l’ho sempre vissuta con desiderio e amore. Ma ora, ora che mi trovo qui, in queste condizioni, non puoi immaginare quello che provo solo a pensare alla vita. Nicolò, ti prego, fai qualcosa!”

“Cosa potevo fare? Se ci fosse stato almeno un astro da invocare, l’avrei fatto, mi sarei prostrato ai suoi piedi un milione di volte e poi un altro milione ancora e così fino a quando non avessi ottenuto il suo aiuto, fino a quando non avessi intenerito il suo cuore, ma non c’era niente. Eravamo soli sotto la vasta cappa celeste, il nulla ci circondava, ci inghiottiva, e il volto di Sylvia era lì, sempre lì per confermarlo. Da quando quell’abominevole creatura l’aveva punta, un diabolico tormento si era impossessato di noi.

“Le dico: “Faccio tutto quello che posso. Vedrai, presto ti porterò a casa e lì potrai riprendere la tua traduzione, il tuo lavoro, le tue cose.”

“Lo so,” fa lei, “lo so che fai tutto quello che puoi.”

“Faticava sempre più a parlare. La guardavo, guardavo lei in quello stato e mi sentivo impazzire. Intuivo che stava pensando al peggio, al barbaro cinismo con cui dovevamo confrontarci giorno dopo giorno; intuivo che viveva il dramma dei drammi. La morte correva, correva, nessuno corre più veloce di lei. Che supplizio!

“Venne un’infermiera a togliermi da quella situazione e le fui grato.

“La volta seguente che la vidi, mi raccontò una strana storia. Disse che durante la notte si era svegliata, aveva acceso la luce, e mentre i suoi occhi passavano in rassegna gli oggetti che la circondavano, aveva avuto la sensazione che avessero anch’essi degli occhi, che la stessero osservando. Il bicchiere dell’acqua, il carrello, il lavandino, le pareti, la finestra, la porta, anche le orchidee già avvizzite, tutto sembrava giudicarla, pronto ad emettere la sentenza finale. Era l’ora della vendetta, la loro vendetta. Essi, quegli oggetti trasformati dall’uomo da immagine naturale ad immagine culturale, protestavano e si vendicavano contro il loro mistificatore, contro chi calpestava la loro forma originale. Le era sembrato che si muovessero, che la stessero accerchiando stringendo schiacciando. Presa dal terrore, aveva afferrato il bicchiere dell’acqua e l’aveva scaraventato contro il muro e aveva iniziato a urlare fino a quando qualcuno non era corso a calmarla.

“Cosa significa tutto questo,” aveva finito per dire, “se non che la materia forte fissa con disprezzo quella debole, quella che sta per morire?”

“La guardai, muto. Pensai che stesse delirando, che fosse mal ridotta, al punto da non ragionare più. Lesse nel mio pensiero e, scuotendo la testa, disse: “Non vaneggio, non sono matta. Vedo cose che tu non vedi, Nicolò, cose che non puoi vedere, cose che solo chi si trova in punto di morte può vedere. No, no, non sono matta, non sono matta, hai capito?”

“E non lo era. Non smaniava. Era solo vivamente consapevole e a tu per tu con quella cosa che l’aveva sempre offesa: la morte.

“Avrei voluto sparire subito dopo che il ragno mi ha punto,” sospirò coprendosi il viso col lenzuolo.

“Solo una volta la udii urlare per il dolore. Stavo arrivando. Mi precipitai. Inutile, i dottori, e questa fu l’unica volta che non me la fecero avvicinare, mi dissero che sarebbe stato meglio se fossi ritornato l’indomani. Quando Sylvia era alla mercé di questi attacchi, il più delle volte le somministravano potenti dosi di morfina.

“Il giorno dopo, non appena mi avvicinai a lei, la prima cosa che mi disse fu:

“Non c’è una morte dolce, non può esserci, sicuramente non per quelli della mia età. Ecco il privilegio dell’esistere, il regalo finale. Alla natura non basta solo eliminarci, ci tortura anche.”

“Quando la rividi la volta successiva, mi terrorizzai, era un disastro, e non mi riservò una dolce accoglienza. Non appena le fui vicino, con un enorme sforzo riuscì ad afferrare e ad aggrapparsi con tutt’e due le mani alla mia camicia e a tirarmi verso di sé. Spalancò gli occhi. Vidi in essi guizzare una scintilla, era un lampo di vita carico di orrore e terrore. Prese a scuotermi gridando:

“Sono rimasta sola, Nicolò. Nessuno può più spargere una goccia d’acqua sul mio cuore assetato. È la fine. Trascinerò con me anche la creatura che porto in grembo, anch’essa perduta per sempre. Ognuno deve vivere la propria morte e la mia è orrenda, orrenda, capisci?”

“Ti prego, …”

“Orrenda!”

“Ti prego, …”

“Taci,” mi fa. “Forse se non ti avessi conosciuto, se non avessi provato insieme a te …” e non finì la frase

“Sylvia!”

“Mi squadra e pentita di quello che aveva appena detto, dice: “Perdonami, oh, perdonami amore, non so più cosa sto dicendo. So solo che ho paura, ho paura di morire, odio morire, non voglio morire, non a questa età!” e si nasconde sotto le coperte.

“L’ultima volta che vidi il viso di Sylvia con ancora il respiro della vita … L’ultima volta … Come dire … Maledizione! Ancora oggi … Non posso credere … Eppure … Adesso basta con questa storia, Amedeo! Non ce la faccio più, non riesco a continuare!”

Nicolò smette di parlare. Rimane seduto, inchiodato alla sedia. Sembra sperduto. I suoi occhi si sono rimpiccioliti e si muovono in fretta sotto le palpebre. Si passa una mano sulla fronte. Suda. Guarda senza vederlo tutto quello che lo circonda. Gli pare di avere delle visioni. Si guarda il corpo, le braccia. È in preda al dolore. Passa tempo. Si riscuote. Riprende a raccontare.

“Gli occhi di Sylvia si chiusero per sempre mentre si aggrappava a me, un lunedì pomeriggio. Mi rimase senza vita tra le braccia. Avvertii, quando questo avvenne, come se si fosse fermato anche il mio cuore; avvertii che, in quel momento, il suo corpo mi stava lasciando; avvertii che qualcosa d’irreparabile era successo. Mi misi a chiamarla dolcemente: Sylvia, Sylvia. Niente. Nessuna risposta. Ripresi a chiamare: Sylvia Sylvia Sylvia! ma lei non rispondeva, non rispondeva più. Mi morsi le labbra. Non c’era nessuno. Eravamo soli. Non chiamai né dottori né infermiere. Per fare cosa poi? Ormai non potevano fare più nulla. Seguitai a chiamare Sylvia, ma Sylvia non rispondeva. Le tenebre avevano già ingoiato il suo io, avevano trionfato definitivamente su di lei. Non ce la feci più, crollai, scoppiai a piangere, a piangere, a piangere mentre continuavo a chiamare Sylvia. Non la finivo più di invocare il suo nome, ma dalla sua bocca non usciva più niente. Tutto si stava raffreddando in lei, e io, già in preda alla disperazione più cupa, la stringevo forte tra le braccia. Continuavo a non accettare, proseguivo a pronunciare il suo nome, fino a quando qualcuno venne a strapparmi via da lei.

“Un’emorragia cerebrale l’aveva stroncata dopo due settimane di quell’agonia”.

Nicolò si alza con il viso inondato di lacrime e va ad aprire la finestra. Rimane lì a lungo, con le spalle rivolte al cugino, senza dir parola, a guardare nel buio. Pian piano l’aria fredda della notte gli rinfresca il volto, ma non il cuore.

Amedeo resta lì dov’è, trafitto, trattenendo il respiro. Non parla. Non sa cosa dire. Guarda per terra, rialza il capo, guarda il cugino immobile alla finestra, continua a tacere. Anche a lui si stringe il cuore.

I due uomini, rapiti da un sentimento che li trascendeva, rimasero per qualche tempo in silenzio. Poi, Nicolò, senza voltarsi, dice: “Adesso, se ci riesco, vorrei parlarti di quello che mi è successo dopo la sua morte.

“La prima settimana era trascorsa in fretta, non me ne ero quasi accorto, tanto ero preso emotivamente. Mi sentivo ubriaco d’un dolore sordo, cupo, straziante, un automa che sbrigava le formalità del decesso. Ancora oggi non riesco a capire come sono riuscito a muovermi da un posto all’altro senza combinare guai. Poi venne l’ultimo strappo, eseguire la volontà di Sylvia: voleva essere cremata, e così fu fatto.”

A questo punto, Nicolò si gira. Il suo volto è di nuovo cambiato. Da una tasca della giacca estrae una scatola piatta, rettangolare, argentea e trasparente con la fotografia di Sylvia, nella quale ci sono anche le sue ceneri. Aveva fatto in modo che, in ognuno dei suoi vestiti, ci fosse cucita una tasca per il prezioso oggetto che lui portava sempre con sé. Solo lui sapeva. Neppure Judy aveva saputo di questo suo segreto. Il primo a saperlo era ora il cugino e gli porse l’involucro.

Amedeo lo prende. Guarda con un senso di rispetto e di cordoglio la fotografia. Sylvia indossava un pareo, un indumento tipico delle isole del Pacifico, molto suggestivo. Portava i capelli corti. Niente da dire, una bella donna. Amedeo non guarda però le sue ceneri. Non gli pare il caso. “Un’urna nella tasca! Che gusto lugubre, che pensiero strano, che romanticherie!” gli viene da pensare, ma non lo dice. Restituisce l’oggetto, guarda il cugino e, mentre questi lo rimette al suo posto, chiede:

“La porti sempre con te?”

“Sì,” fa lui.

Amedeo non dice altro.

“Come sai,” continua Nicolò, “ero un bambino quando hanno ucciso mio padre e quando ho ricevuto da te la notizia della morte di mia madre, devo confessare che mi sono sentito liberato d’un peso, piuttosto che rattristato. Per quello che riguarda la morte di mio fratello, non mi ha neppure sfiorato. Altre esperienze sulla morte non ne avevo avute, eccetto per la mia a Parigi, in quella casa dei dannati della terra e in compagnia del Portoghese.

“Con la morte di Sylvia tutto era cambiato, nulla era più lo stesso. Sydney non era più Sydney; io non ero più io. Insieme a lei crollò il mondo e il Sole si spense. Non sapevo come vivere. Mi sentivo come un cucciolo smarrito. La mia vita era distrutta. Dopo tanti bagni di felicità, gioia, piacere, luce, primavere, estati, ecco arrivare l’inverno, la tristezza, la disperazione, il dolore. Un cuore colmo di supplizi mi opprimeva. Tutto si era frantumato in me e, insieme a questa frattura interiore, era mutata anche la mia visione delle cose.

“La casa non era più la stessa, il giardino non era più lo stesso, la lettura non era più la stessa, il cibo aveva perso ogni sapore e Sydney non era più Sydney. Il cambiamento era totale, assoluto. Mi ero trasformato irrimediabilmente. Io non ero più io. Ogni cosa mi divenne sbiadita, priva di valore, di senso, di vita. Il mondo e tutto quanto c’era in esso aveva perso fascino, poesia, freschezza, era diventato un lenzuolo funebre in cui io mi rotolavo.

“I rimpianti di tutto quello che lei non aveva potuto realizzare si facevano sempre più acuti: non aveva potuto godersi la nascita del figlio che portava in grembo; non aveva potuto realizzare il suo sogno di visitare l’Italia; non aveva potuto completare la traduzione del libro; non aveva avuto il tempo di vivere la sua vita, il tempo di prepararsi e di mitigare la sferzata della morte.

“In quei giorni terribili annaspavo nelle tenebre colmo di ricordi, di lacerazioni, di rimpianti, di disperazione. Nulla più spargeva un soffio di vita, di profumo. I fiori non odoravano più, i suoni erano spariti, l’entusiasmo finito. Cos’ero diventato io da un giorno all’altro?

“Fino a qualche tempo prima, pensavo che il male più grande sarebbe stato la mia morte. Dovetti ammettere che avevo torto. Il male più grande è quando uno perde la persona che più ama al mondo e io amavo Sylvia più di me stesso. Ecco il peggiore dei mali. Bastava che aprissi bocca e lei sapeva ciò che volevo dire e viceversa. Eravamo diventati una sola persona: due teste, un solo pensiero. Senza di lei ero solo un poveretto, un essere mutilato.

“Quello che più mi straziava era l’idea che non l’avrei mai più rivista. Quest’idea mi faceva letteralmente impazzire. Non mi dava pace, tregua. Volevo finirla, una volta ancora volevo finirla con la mia vita. Lei non ci sarebbe stata più; non l’avrei più rivista, allora perché e per chi continuare a vivere?

“Tutto in quella casa parlava di Sylvia. Ogni più piccolo oggetto me la ricordava. E non solo. Non c’era un palmo di Sydney che non parlasse di lei. Il solo vedere l’Opera House mi dilaniava il cuore. Mi capitava anche di avvertire intorno a me un’atmosfera surreale, di estraenità. Ricordi mozzafiato non mi davano tregua. Ero preda dei fantasmi di Sylvia. Da viva era quasi sempre nella mia mente, ma, come dire, mi lasciava comunque fare, studiare, essere; da morta, invece, dominava interamente il mio pensiero: non c’era che lei.

“Non ce la facevo più ad andare avanti. Mi sentivo colpito dall’impotenza, un ricettacolo che albergava la morte. Una solitudine glaciale, mortuaria, abissale percorreva il mio corpo da cima a fondo e io non trovavo pace. Il supplizio era totale e senza speranza di guarigione. Avevo fatto parecchie esperienze nella vita ma, al confronto, sembravano nulla.

“Non riuscivo a convincermi; non riuscivo ad accettare. La cosa peggiore che potesse accadermi era di perdere Sylvia e l’avevo persa.”

“Non so cosa dire,” balbetta Amedeo.

“Non c’è nulla da dire, Amedeo!” sbotta Nicolò cambiando tono e spirito. “L’universo intero è governato da leggi pazze e incontrollabili. La nostra vita è nelle mani dell’ignoto, siamo come delle marionette che ci esibiamo su un palcoscenico minaccioso e grottesco. E come se questo non bastasse, anche i giorni ci vengono accorciati! Chi può alzare la mano contro chi più ci tiranneggia? Nasciamo gridando e moriamo piangendo e ci muoviamo e strisciamo impotenti tra la vita e la morte. La natura ci odia. Ci mette al mondo perché ci sbraniamo a vicenda, per fungere da selvaggina l’uno per l’altro, e ai più forti è essa stessa che dà il colpo di grazia. Questa matrigna senza anima e senza cuore ci ha resi tutti succubi e vigliacchi. Come si può accettare questo flagello? Come si può avere occhi per vedere e cervello per pensare e sentimenti per amare, se poi, proprio quando iniziamo a capire come funzionano le cose, quando siamo pronti a godere delle nostre fatiche, proprio allora veniamo stroncati in un attimo? Assurda fabbrica, odiosa fine!”

“Ho l’impressione che esageri,” dice Amedeo. “Non credere, io il tuo dolore lo capisco. Il destino si è accanito con te. Malgrado ciò, non condivido la tua presa di posizione dopo la morte e tanto meno il tuo pessimismo. Tu vedi tutto nero.”

“Ti sbagli, cugino, io annego nella luce! Ma tu non vuoi capire che – e lasciamo perdere il mio dolore per Sylvia – fino a quando l’uomo non riuscirà a rendersi padrone della morte, non importa come, che so io, culturalmente, scientificamente, diabolicamente, insomma, fino a quando non si affrancherà da questo flagello, tutto quello che compirà non sarà altro che un buco nell’acqua. Non c’è storia, non c’è arte, non c’è filosofia, non c’è felicità, c’è solo lei, la Morte e il resto è tutto silenzio!”

“Certo che se poi uno non crede proprio in niente di niente, dev’essere dura,” fa Amedeo.

“Credere in che cosa? A chi? Ad un altro bipede come me? Ad un altro mammifero come me? Ad un altro scimmione come me? Ad un’altra bestia come me? A chi devo credere? E poi chi mai è costui perché io debba credere in qualcosa che lui stesso ignora?”

“Potresti allora credere nel destino.”

“E dov’è il destino? L’hai mai visto, tu?”

“Io no.”

“E allora? Sono tutte scemenze, tutte scemenze, cugino! Invenzioni che vengono imposte dal nonsenso; spauracchi inventati per abbindolare il popolo; illusioni create da coloro che hanno la visione corta.

“E per quello che concerne il destino, questo è il rifugio degli scansafatiche. È più facile dare la colpa al destino che investigare e riflettere sulle cause d’un determinato caso. Solo gli sciocchi credono. E se vuoi proprio saperlo, sono anch’io uno sciocco, sono anch’io uno di quelli che credono: credo alla morte come fine di tutto.”

“Ma ci dev’essere pure qualche altra dannata cosa dopo questa vita!”

“Tutto quello che vuoi, ma solo nella tua testa, nella tua testa e basta! Fuori da questa (gli mostra la sua testa con la mano), fuori da questa, la realtà è ben diversa. È la disperazione, cugino, la disperazione che ci porta a tanto delirio, a tante assurdità. È pericoloso guardare in faccia il nulla. Nel pandemonio in cui viviamo non c’è spazio per illusioni, in ogni istante ci troviamo innanzi alla bocca d’un cannone, che viene accudito, guarda caso, non da un savio, ma da un pazzo mangiafuoco che gioca con la miccia.”

Amedeo intuisce lo stato d’animo del cugino. È meglio non contraddirlo. Gli chiede: “La tua storia finisce con la morte di Sylvia?”

“La mia storia non finisce mai!” risponde lui. “Per sempre, anche quando la Terra sarà inghiottita dal Sole, anche allora rimarrà, seppure nel vuoto dello spazio, la scia del pianeta che non c’è più, sul quale Sylvia e Nicolò un giorno si sono incontrati, amati e, poi, sono spariti. Niente può cancellare quella traccia nello spazio. Là noi saremo immortali!”

“Che bella consolazione!” scappa di bocca ad Amedeo.

“Puoi dirlo. Almeno è una consolazione sana, senza inganni e senza illusioni.”

“L’hai proprio detto!”

“Vuoi conoscere il resto del racconto?”

“Che aspetti a finirlo?”

Nicolò si accorge che la finestra è aperta. La chiude, si siede. Riprende il racconto.

“In quei giorni di profondo dolore, ripassai mentalmente la storia della mia famiglia e della mia vita. Ricordai l’ostilità e il disprezzo con cui mi sono scontrato all’estero per essere nato in un luogo piuttosto che in un altro; per essere cresciuto in un modo piuttosto che in un altro. Passai in rassegna tutte le mie tribolazioni, la bruttezza del bisogno, il mio rancore contro un mondo che, grottesco e demoniaco di natura, è reso ancora più brutale e invisibile dall’egoismo e dall’arroganza degli uomini. Si riagitò in me quel senso di rivolta che avevo provato anni prima a Parigi e che Sylvia aveva saputo placare.

“Dopo la sua morte, questo sentimento si riaccese, provocò in me un forte senso di colpa. Era come se avessi tradito qualcuno, come se fossi scappato via con un segreto conquistato assieme ad altri dopo dure battaglie e fatiche. Sentivo che dovevo fare qualcosa. Mi convinsi che mi ero lasciato conquistare facilmente da un ambiente comodo, tranquillo, felice. Dovevo scuotermi. Non potevo continuare a commiserarmi per sempre, a crogiolarmi nel dolore. Dovevo smettere di piangere per Sylvia, smettere di oziare. Gli studi che avevo fatto non dovevano essere solo per amore dello studio, ma anche e soprattutto per ripulire il mondo dallo sporco in cui annega. Dovevo spalare la mia parte di merda.

“Tempo dopo, una sera, incontrai Judy. L’hai conosciuta. Non avevo parlato con nessuno della mia disgrazia. Mi pesava. Dopo qualche tempo, decisi di aprirmi a lei. Le raccontai del nostro amore e di tutto quello che Sylvia aveva fatto per me. Questa valvola di sfogo mi fu d’aiuto. Judy seppe ascoltarmi, capirmi. Divenimmo amici, amanti.

“Per un certo tempo, Judy riuscì a nascondersi dietro la sua maschera e persino ad avvicinarsi al mio cuore simpatizzando con il mio dolore, con le mie idee. Le parlavo di storia, di evoluzioni, e di uomini buoni e cattivi e di uomini nuovi, di società ideali e delle avventure dell’uomo nello spazio. Avevo bisogno di illudermi, di credere in qualcosa. Ma, una volta sazia di quelle mie chiacchiere irritanti e tediose, come aveva finito per chiamarle, si tolse la maschera lasciando apparire un’altra persona, quella che realmente era: piaceri e svago. E, tanto per cominciare, cercò di capovolgere il nostro rapporto attirandomi nel suo mondo, un mondo fatto di vizi e di crapulonerie di ogni sorta.

“La seguii per un po’, poi mi stufai, mi disgustai, cambiai anch’io, e tanto energicamente quanto aveva fatto lei con me. Le dissi che non ero tagliato per il suo stile di vita e che volevo ritornare in Europa. Si oppose, provò a farmi capire che potevamo intenderci, trovare un compromesso. Niente da fare, non m’interessava neanche seguirla a metà in quella sua esistenza egoistica e sans soucis.2

Così vendetti tutto e rientrai a casa. Il resto lo conosci.”

 

1 Come sei affascinante Parigi / e come mi piaci / particolarmente in quest’ora dell’alba. / Parigi, sei una donna dal sangue caldo / anche quando dormi.

2 Senza preoccupazioni.

 

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