Perché scrivo?

 

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Ho scritto Nicolò pensando che non avrei voluto morire senza prima averlo scritto. Ci sono esperienze nella vita di un uomo che non può tenersele solo per sé e neppure portarsele nella tomba. La mia è una scrittura nata dall’esperienza e dal bisogno. Come la madre deve partorire o morire, così io devo scrivere o perire. Il detto: scrittori non si nasce, mi si addice.

Penso che la stessa cosa si potrebbe dire, e non solo di loro naturalmente, di Primo Levi, di Henri Charrière e di Aleksandr Solženicyn. “Se questo è un uomo”, è figlio dell’esperienza dei campi di concentramento nazisti; “Papillon”, è figlio dell’esperienza dei lager della Guyana francese, Un giorno nella vita di Ivan Denisovič”, è figlio dell’esperienza dei gulag russi. È “Nicolò” di chi è figlio? “Nicolò” è figlio dell’esperienza dei lager sociali in cui viviamo.

Una scrittura di denuncia? Affatto. Una scrittura realistica, una scrittura nata da condizioni di vita estreme, al limite del sopportabile.

Perché scrivo? Scrivo perché sono un essere umano e gli esseri umani non possono tacere ciò che li ha più offesi e brutalizzati; scrivo perché sono, nell’anima e nel cuore, un romantico, uno che crede che la vita vada vissuta dignitosamente, ma soprattutto scrivo per tutti quelli che amo, per tutti quelli che rispetto, per tutti quelli che hanno a cuore l’amore per l’esistenza; insomma scrivo perché vorrei condividere con tutti questa magica esperienza che è la nostra e unica vita.

Se domenica 21 maggio vi trovate per caso al Salone del Libro di Torino, io sono allo stand H133, Padiglione 2. Mi farà molto piacere salutarvi di persona.

 

 

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