L’editoria italiana – 9 post, l’ottavo *

Vanity press, édition à compte d’auteur, autori a pagamento

Sono uno scrittore che si auto-pubblica, a self publishing author. Cosa vuol dire? Vuol dire che prima vivo sulla mia pelle i racconti che scrivo, e questo può avvenire sia in modo fantastico che reale o in entrambi modi, poi passo dalle idee al concreto, scrivo i miei racconti, romanzi, saggi, poi, via via che prendono spessore e contenuto, scelgo il titolo da dare, scelgo chi me li stamperà, correggo le bozze, decido il formato, la copertina, cosa scrivere sul retro di copertina e sulle alette, decido il prezzo, pubblico, pago e, infine, rileggo le mie opere pubblicate. Per me questa è una grande realizzazione, soddisfazione, gioia. Sono, come si dice, non un mozzicone, un quarto o un mezzo scrittore, ma uno scrittore intero.

Pubblico anche a pagamento. Perché? Perché con gli editori con cui pubblico io, mi costa molto meno stampare, e non solo in denaro, ma anche in lavoro e altri inconvenienti. È questo il motivo per cui, a volte, mi capita di pubblicare a pagamento. Ci sono poi sicuramente altri mezzi e modi per come pubblicare il proprio lavoro con minori costi e impegni, ma io questi mezzi e modi non li conosco.

C’è, e bisogna dirlo, un piccolo problema con tutto questo auto-pubblicarsi o farsi pubblicare da editori a pagamento. I libri pubblicati, parlo per me, 99 su cento, e non importa il buono o il brutto stile, il contenuto o la forma, inevitabilmente, non avendo io i mezzi per lanciarli sul mercato, distribuirli, pubblicizzarli, si ammucchiano in cantina, per la casa, in solaio, sugli scaffali, ovunque. È triste, è proprio triste a volte vedere i propri libri, i propri figli, figli voluti e creati con sudare (i miei libri sono come dei figli, mi rappresentano e li rappresento), messi lì così sul pavimento e dappertutto in giro per la casa. Non dovrebbe pubblicarli l’autore, i suoi libri, ma l’editore!

In ogni modo, non bisogna scoraggiarsi, perché autori come James Joyce, Marcel Proust, Alberto Moravia, Italo Svevo, tanto per fare il nome di alcuni di quelli più conosciuti, hanno pagato per pubblicare i loro libri. E con questo? Sto forse dicendo che se l’hanno fatto loro, posso farlo anch’io? Affatto. Non mi paragono con nessuno, io, per il semplice fatto perché io sono io. Cosa vuol dire “io sono io?” Vuol dire che nessun scrittore non può essere che se stesso, quindi penso di avere qualcosa da dire, qualcosa che neppure Joyce, Proust, Moravia o Svevo, avrebbero potuto dire al mio posto.

Il fatto che mi auto-pubblico, poi, non vuol dire che i miei racconti, scritti, romanzi siano inferiori a quelli che vengono pubblicati da case editrici stipendiate dallo Stato, come la Mondadori (vedere il primo post di questa serie), ad esempio, oppure lanciati sul mercato come best-seller da critici e agenti letterari disonesti, oppure da editori doc, che hanno titoli doc, che sono stampati da stampatori doc, corretti da correttori di bozze doc, recensiti da critici doc, distribuiti da distributori doc, per nulla, i miei libri, è vero, non godono d’un tale servizio “doc”, ma nonostante ciò, questo non vuol dire che siano meno “doc o doccati” dei loro.

Quello che sto per lanciare ora, non lo faccio per vanità, spavalderia, impudenza, fame di notorietà. Nulla di tutto questo. I am a self-made man e sono soddisfatto di quello che sono riuscito a realizzare nella mia vita. Di più. Vivo anche benissimo nel sacco di pelle in cui mi trovo. Quello che sto per lanciare, lo faccio perché, come ho detto poco sopra, ho qualcosa da dire. Sfido, quindi, sfido qualsiasi editore doc del paese delle meraviglie a prendere uno dei suoi romanzi, a sua scelta e piacere, e io ne prendo uno dei miei, e poi li facciamo leggere, non dai soliti critici ed esperti, per favore, affatto, ma dal popolo, dal popolo che è l’unico, a mio parere, degno di questo compito. E perché è l’unico?, mi si potrebbe chiedere. Perché, nella nostra società, ormai è tutto tutto tutto corrotto fino al midollo, e lui, il popolo, è l’unico che non si è ancora corrotto, che non si è ancora venduto. È un essere puro, ha una sua dignità, morale, etica, umanità, e non importa il suo livello di cultura istituzionalizzata, capirà i due racconti comunque. Sarà il popolo, allora, a lettura finita, a dire quale dei due romanzi ha più amato.

Non posso farci nulla, sono un romantico fino in fondo, uno che crede nel fair play, nell’essere, com’è di moda dire oggi, politically correct. Voilà. La sfida è lanciata!

Nel prossimo post, l’ultimo di questa serie, La mia casa editrice

Tratto da Il Paese delle meraviglie

* Mi scuso, ho saltato il settimo post, La cultura della rimozione

 

UN INVITO: passate parola, condividete, dite ciò che pensate. Per crescere e maturare culturalmente (non biologicamente, di questo si occupa la natura), abbiamo bisogno di comunicare, confrontarci, dire la nostra brutta o bella che sia. Fatelo! La vita è qui e ora e poi mai più! Non perdetevi questo confronto con voi stessi e coi vostri simili. Siamo tutti degli esseri umani! È questo ciò che raccomanda agli amici del Web, Orazio Guglielmini. E io aggiungerei un “Grazie!” per chi volesse tradurre questi post nella sua o in un’altra lingua.

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